I veri fratelli Menendez alla sbarra con la loro avvocatessa (foto Getty) 

Il Foglio Weekend

Dai Mostri ai "Monsters", oggi il true crime è il genere preferito

Michele Masneri

 Podcast, documentari e tante serie televisive. Spopola la moda degli ammazzamenti in streaming 

Sbatti il mostro in prima pagina, si diceva un tempo, ma oggi qualunque mostro sa che i giornali sono in crisi e pretenderà piuttosto una bella serie tv. Un film. Al limite, un podcast.  

 

La scelta è vastissima. Parricidi in California tra le palme, oppure un bel serial killer nostrano (con questo clima autunnale, meglio un ammazzamento  a km zero).  Che ammazzamento ci vediamo stasera? Ormai il true crime è intorno a noi, siamo circondati, non c’è scampo. Le piattaforme ci inondano di serie brevi, medie o mediolunghe, con protagonisti assassini sanguinari, possibilmente d’epoca e sempre basati su una storia vera. Stiamo tutti aspettando (insomma, chi più chi meno) “Avetrana. Qui non è Hollywood” su Netflix, veniamo da “Yara” sempre sulla piattaforma, ancora ci ricordiamo di “Vatican Girl - La scomparsa di Emanuela Orlandi”, e magari qualcuno ha amato “Alfredino - Una storia italiana” – su Now e RaiPlay.  Il true crime, la cronaca nera e vera, è un successo e un’ossessione. Naturalmente è fenomeno importato, in America da almeno quindici anni è il genere più amato e titillato, ci sono anche studi e sondaggi. 

 

Una rilevazione di YouGov del 2022 svelò che un americano su due ama il true crime. Il 13 per cento lo considera il suo genere preferito. Il 35 per cento ammette di “consumare” true crime almeno una volta alla settimana.  Ci sono le teorie più disparate anche scientifiche o pseudoscientifiche a spiegazione del fenomeno: secondo qualcuno sviluppando adrenalina il true crime è particolarmente addictive. La paura è del resto uno dei sentimenti primordiali, signora mia. Tutti convengono che le donne in particolare ne sono ghiotte (il 58 per cento).  Teorie forse un po’ sessiste tentano di spiegare: come osserva Julia Davis, direttrice di “Crime Monthly” (vabbè) molte donne vedono la cronaca nera come un modo per comprendere meglio i pericoli che potrebbero incontrare, acquisendo così un senso di potere e controllo. Rachel Fairburn, autrice del podcast “All Killa No Filla” (ri-vabbè), aggiunge che fin da piccole, le donne sono educate a essere prudenti e il true crime aiuta a decodificare i “cattivi” per proteggersi meglio.

 

Come che sia, er crimine vive un suo momento di gloria grazie alle piattaforme di streaming che hanno eliminato la differenza tra genere televisivo e cinematografico, tra “splatter” un tempo impresentabile relegato alle trasmissioni del pomeriggio, con gli inviati nelle multiple villette degli orrori, e invece la grande serialità in smoking, il Telegatto della truculenza, il consumo percepito come ganzo la sera, la strage su abbonamento premium.

 

Il true crime netflixiano supera infatti l’epoca del genere “alto” – mettiamo Dario Argento ma anche i blockbuster d’autore come “Il silenzio degli innocenti”, del secolo scorso, lo mischia con il poliziottesco da “Milano odia: la polizia non può sparare” e con il “courtroom drama” di “Un giorno in pretura”, gli mette minigonna e abito lungo coi lustrini.  


Certo ci si chiede come si possa avere voglia di “vero crimine” televisivo la sera dopo aver visto e letto ormai giornalmente di casi di cronaca sempre più truculenti: figli che sparano a papà, papà che trucidano mamme, mamme che eliminano bebé e li seppelliscono in giardino. E lì i soliti interrogativi: saranno in aumento questi killer, sarà colpa “della società” (con le interviste demenziali agli psicologi e sociologi) o si è sempre fatto ma  non si raccontava? Un po’ come i celiaci e gli omosessuali: che oggi sembrano molti di più, magari celati un tempo in quello zio che aveva sempre mal di testa o quell’altro zio che era rimasto signorino perché non aveva trovato la donna giusta. Misteri. Bisognerà forse non parlarne, come durante il Ventennio?
E gli stessi assassini svalvolati di oggi poi sottoposti a queste masterclass continue di delitti, non verranno inutilmente stimolati? Il killer diciassettenne artefice dell’omicidio di Maria Campai  a Viadana nella bassa lombarda per esempio ha ammesso di essersi ispirato a uno dei personaggi della serie tv Dexter. Però già Alfred Hitchcock, inventore del moderno brivido, a chi l’accusava di ispirare i nuovi killer svalvolati con le sue pellicole rispondeva: e se prima di ammazzare invece hanno bevuto latte, vieteremo le vendite della bevanda? 

 

Forse però un piccolo effetto emulazione ci sarà: perché anche le trasmissioni del pomeriggio e pure della sera ormai hanno questi concorrenti hollywoodiani di ammazzamenti, oltre alla cronaca locale sempre ricchissima, quindi come si dice devono alzare un po’ l’asticella: e sarà un’impressione ma pare che tutti i palinsesti si siano fatti più truculenti. I più politicizzati diranno che è colpa di #telemeloni, che propone la cronaca spicciola più cruenta per non parlare dei misfatti del governo. Però pure i giornali non scherzano…

 

Sarà tutto un circolo vizioso? Qualche giorno fa per esempio si è vista una puntata di “Un giorno in pretura” sul caso della pachistana Saman uccisa dai parenti a Reggio Emilia, con dettagli tremendi (si vedevano i denti della povera ragazza seppellita e quasi mummificata in giardino). Sembra venuta meno, insomma, una certa tradizione italiana di depotenziamento della realtà che invece in altri ambiti continua con successo. Gli ammazzamenti televisivi italiani parevano un tempo – ma magari si sbaglia - gentili, crepuscolari, con la nostra Signora Omicidi, Franca Leosini, che stemperava le atrocità di mostri dietro le sbarre tra la cofana di capelli marmorizzati e l’eloquenza da grande tradizione giuridica partenopea.  Il true crime all’acqua pazza è destinato a morire? Sarà l’ennesima vittima di Hollywood? O invece si può fare il percorso inverso: il true crime mediterraneo potrebbe trasformarsi in una variabile di successo anche globale con Alba Rohrwacher che interpreta Leosini in una serie Netflix (già avvantaggiata dallo studio del napoletano per l’Amica geniale)?.

 

Comunque, il true crime americano resta irresistibile. Il re incontrastato della moderna narrazione sanguinolenta è  Ryan Murphy, lo sceneggiatore-produttore-regista che da “Nip/Tuck”  e “Glee” in poi sta contribuendo a ridisegnare l’immaginario americano. Anche criminale:    “American horror story”, “American crime story” e poi “Monsters” sono alcuni dei suoi successi, con cui ha inventato la figura inedita del serial killer di fascia alta. 

 

Ultima la serie antologica su assassini di successo, con una prima stagione dedicata a Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, adesso con la  spaventosa seconda  che segue i fratelli Menendez che sterminarono la famiglia nel 1989 a Los Angeles. Ma in generale il trattamento è lo stesso: prendere i peggiori mostri della storia recente e trasformarli in protagonisti di sceneggiati da binge-watching. Certo, nulla di nuovo. Hannibal Lecter era già un discreto mostricciattolo, ma era vestito male, era un killer che nessuno avrebbe voluto portarsi a cena o a letto. Oggi invece siamo di fronte a uomini (generalmente sono sempre uomini) che sembrano aver comprato il loro kit da serial killer su Vinted e il loro manuale di istruzioni direttamente dagli incubi degli spettatori, ma con la consulenza di uno stylist di Gucci. 

 

L’ammazzamento ai tempi delle piattaforme è ormai infatti un’esperienza estetica, anche grazie alle nuove tecnologie che ci permettono di vedere questi mostri nel super hd dei nostri televisori senza neanche dover uscire e andare al cinema. Così c’è pure il sottile brivido di sapere che potrebbe capitare anche a noi. Ma non capiterà, perché abbiamo imparato tutte le lezioni giuste: non fidarsi mai degli sconosciuti, chiudere sempre la porta a chiave, non accettare mai inviti a cena da qualcuno che ha un congelatore particolarmente capiente. Che poi, magari ce cascano, questi killer bonazzi e ben vestiti. 

 

Il killer patinato poi ha ulteriori attrattive: il true crime porta con sé la rassicurazione che non stiamo guardando finzione. Tutto quello che vediamo è accaduto davvero, e in qualche modo questo ci fa sentire meno colpevoli. “È successo davvero, quindi non è colpa mia se sono interessato.” E’ un po’ come vedere Quark. Poi, nell’epoca dell’attenzione perduta, possiamo mettere in pausa e fare ricerca sui misfatti che vediamo in tv su Wikipedia (Ah, vedi, è tutto vero, quell’avvocato aveva proprio i capelli ricci così!), e si ha così la sensazione anche di non essere dei completi deficienti, abbruttiti sul divano come siamo con le patatine e le uccisioni, ma anzi, di aver fatto anche un po’ di scuola serale. 

 

Non parliamo poi dei podcast. La moda del true crime ha invaso anche Spotify, con centinaia di ore di racconti dettagliati di crimini irrisolti, omicidi efferati e misteri che ancora ci fanno venire i brividi, tra un appuntamento col parrucchiere e il bambino che esce da scuola. “L’ho sentito in un podcast” poi fa cittadino informato, moderno, metropolitano, abbonato a Internazionale, altro che “l’ho letto dal parrucchiere” o “l’ho letto su Cronaca vera” come i nostri omologhi di vent’anni fa.  Volendo, poi, uno potrebbe non uscire mai dal suo proprio palinsesto crime giornaliero: podcast al mattino, guidando verso il lavoro, poi lettura degli ultimi squartamenti sui quotidiani in ufficio,  qualche ora di Retequattro al pomeriggio, un bel tg la sera con le news sugli sgozzamenti, infine una bella serie Netflix la sera. 

 

Perché è la sera, è la sera che la famiglia si raduna davanti alla strage, come un tempo davanti a Rischiatutto. Nonni e nipoti, figli e papà si mettono sul divano a godersi la tele-mattanza.  Il capolavoro è appunto la seconda stagione di “Monsters”, sempre su Netflix, sul caso dei fratelli assassini Lyle ed Erik Menendez. Con enormi costi produttivi, attoriali, ricostruzione di colonne sonore e ambienti e costumi,  racconta  di due fratelli ventenni che a Beverly Hills  nel 1989 fanno fuori a fucilate multiple papà e mamma. Caso di cronaca che tenne incollati media nazionali e internazionali con dilemmi: saranno i soliti ragazzi viziati alla Pietro Maso che vogliono mettere le mani sull’eredità oppure, come sostenne la difesa, due povere creature vessate e torturate per anni che scelsero l’extrema ratio dell’arma da fuoco per difendersi da una coppia di mostruosi genitori che li avevano abusati sessualmente e psicologicamente da sempre? E forse stavano addirittura per ammazzarli? (Dunque, chi sono i mostri in questione? Gli ammazzati o gli ammazzatori?). 

 

Questa serie  poi è veramente una roba per stomaci forti, anche se il genio di scrittura e di regia vi ricompenserà dello sforzo di certi momenti piuttosto nauseanti (quando si illustrano i tipi di torture sadiche che il papà infliggeva ai figli, per esempio). Il papà immigrato cubano e self made man discografico di successo è interpretato da Javier Bardem che lascia stupefatti per la bravura, così come la mamma depressa e impasticcata (Chloë  Sevigny), per non parlare della regia di certi episodi (uno è composto da un’unica inquadratura di un interrogatorio, senza cambi di scena, per tutta la puntata) mentre risuonano le hit degli anni Ottanta. Potente è infatti la nostalgia, diciamo l’effetto Vanzina. Ah, le musiche del nostro primo bacio (mentre un fratello finisce la mamma a pallettoni). Ah, vedi quella felpa! (mentre l’avvocato espone le foto delle torture). Ce l’avevo anch’io al liceo, magari ne fanno una riedizione, cerchiamola online  (tipo l’episodio dei “Mostri” di Dino Risi del 1963, quando durante la proiezione di un film sulla Seconda guerra mondiale, Ugo Tognazzi impersona uno  spettatore che assiste con sua moglie alla scena di una rappresaglia nazista, ma i due sono molto più interessati al muro dell’esecuzione e pensano di farne costruire uno simile nella loro villa di campagna).

 

Sessant’anni dopo, nel caso dei “Monsters” odierni, subito sono cominciate le polemiche e la procura di Los Angeles ha detto che a seguito della serie riaprirà il caso sui fratelli Menendez. E’ noto infatti che un effetto collaterale del nuovo successo del true crime è anche che talvolta fa riaprire casi giudiziari o comunque almeno suscita provvidenziali polemiche  e garantisce copertura mediatica grazie a nuovi testimoni, nuove teorie magari farlocche però affascinanti, dunque si riparla del caso: è successo con  Emanuela Orlandi e San Patrignano. Anche, nell’epoca della memoria breve, per tutti i millennial e Z  generation, si risentono storie magari di trent’anni fa che noi boomer sappiamo a memoria e mai avremmo ritenuto cool, ma che per i nuovi smemorati sembrano fatti freschissimi e affascinanti. 

 

Certo poi la new wave dell’horror è globale ma qualche differenza permane. Gli avvocati dei Menendez sottolineano che i due fratellini si si sono già fatti 35 anni di carcere (una delle differenze dell’America rispetto all’Italia è che l’ergastolo è vero e non si tramuta in una quindicina d’anni per buona o normale condotta). E per tornare allo specifico italiano, lontano da Hollywood c’è appunto “Avetrana” relativo al delitto della quindicenne Sarah Scazzi. La miniserie sarà presentata in anteprima alla  Festa del Cinema di Roma e distribuita su Disney+. Il delitto avvenuto il 26 agosto 2010 in provincia di Taranto   ha avuto un enorme rilievo mediatico, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere della vittima in diretta a  “Chi l’ha visto?” dove era ospite, in collegamento, la madre di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo. Dunque, delitto perfetto (per un audiovisivo). 


Perché ormai un ammazzamento se non ha la sua serie o docuserie è dimenticato, è fiacco, è di serie B. Ormai chi commette un atroce delitto penserà prima a trovare una buona piattaforma che un buon avvocato. E in carcere ci si immagina dietro le sbarre assassini di varia risma che discutono: a te chi ti impersona? Tu sei su Prime o su Disney?  La serie è poi anche il quarto grado di giudizio, dopo la Cassazione. Assicura la revisione del processo, almeno un libro, una comparsata. In America come in Italia. 

 

Da noi prevale però la docuserie: lo specifico italiano vede la preponderanza di questo genere. Forse per mancanza di un numero di attori sufficiente (i bravissimi Favino e Castellitto non possono fare tutti gli assassini e gli assassinati); forse perché costa meno (una serie come “Monsters” manderebbe in rovina tutto il Mibac e tre quarti dei produttori romani). 

 

Almeno però, appunto, si risparmia sulla comunicazione. In attesa che esca “Avetrana”, son già partite  ottime proteste per la locandina che sembra quella di un film comico e  il sindaco minaccia già querele per diffamazione. Ma già Yara, enorme successo, aveva suscitato enormi polemiche; la serie, “quarta al mondo più vista su Netflix” per un certo periodo, secondo le classifiche misteriose delle piattaforme, vedeva secondo alcuni Massimo Bossetti, condannato in tutti i gradi di giudizio, imporre il suo punto di vista senza un contraddittorio serio e con omissioni sulle prove d’accusa. Sempre riguardo Avetrana, la figlia di Michele Misseri ha detto invece alla Stampa che  “hanno costruito una storia in cui le donne di casa erano le cattive e l’uomo un buon padre di famiglia soggiogato. E’ la sceneggiatura perfetta per un film. Non lo vedrò perché sto già male così da anni e non voglio cercarmi altra sofferenza”. Forse guarderà un altro true crime su un’altra piattaforma. Forse ascolterà un podcast. Ha detto, comunque, che ha intenzione di disdire Netflix.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).