La compassata familiarità dell'ispettore Stucky di Giuseppe Battiston
La serie tv in onda su Rai2 sull'ispettore trevisano porta in televisione il personaggio creato da Fulvio Ervas e protagonista del film "Finché c'è prosecco c'è speranza" di Antonio Padovan
C’è qualcosa di familiare nelle movenze, negli sguardi, nel modo di muoversi nello schermo di Stucky, l’ispettore creato da Fulvio Ervas e interpretato nella serie tv – trasmessa da qualche settimana da Rai2 il mercoledì – da Giuseppe Battiston e diretta da Valerio Attanasio. C’è qualcosa di familiare nelle ambientazioni, nei panorami e negli interni nei quali si muove. Anche per chi Treviso (dove è girata la serie) non l’ha mai vista o vissuta.
Non è scontato che accada qualcosa del genere. Quando di mezzo ci sono omicidi, assassini e sbirri si frappone sempre una sottile distanza tra spettatori e video, una lontananza dovuta al fatto che in certe situazioni, in certi contesti, nessuno vorrebbe entrarci. Perché senz’altro esiste una fascinazione, una curiosità evidente e invadente verso queste storie – soprattutto in Italia dove il mercato del giallo e del noir è da sempre elevato –, ma è sempre un interesse distaccato, quasi timoroso.
Non va così con Stucky. Sarà forse perché lo Stucky di Giuseppe Battiston entra in punta di piedi nello schermo, ha il fare svagato e i modi leggeri di chi assiste alle cose della vita appeso a un filo di ironia, a volte sognante a volte cinica. Era così lo Stucky personaggio dei libri di Fulvio Ervas. Trasportare tutto questo davanti a una telecamera è qualcosa di raro.
Era già successo nel debutto dell’ispettore trevisano di origini persiane al cinema in “Finché c’è prosecco c’è speranza”. Il merito di portare Stucky al cinema fu del regista, all’epoca al debutto cinematografico, Antonio Padovan, che scrisse soggetto e sceneggiatura assieme a Fulvio Ervas e Marco Pettenello. A interpretare l’ispettore era sempre Giuseppe Battiston. In “Finché c’è prosecco c’è speranza” emergeva uno Stucky più intimo e profondo rispetto a quello della serie tv, più umano forse. Senz’altro diverso, nel quale però persisteva quella sottile ironia di fondo di chi assiste all’andare avanti del mondo consapevole che tutto potrebbe essere migliore, ma che in fondo questa è la vita e tocca trovarci qualche cosa di bello, sia essa un goto de vin o qualche bell’immagine da trattenere in noi.
Ci sono storie che dalle pagine di un libro arrivano al cinema o in televisione allo stesso modo, almeno per gli eventi, ma difettose per atmosfera. Altre che invece riescono a rendere bene questa pur trasformandosi e reinventadosi. E’ il caso delle storie televisive di Stucky. Diverse, quasi sempre nuove rispetto a quelle narrate da Fulvio Ervas, eppure fedeli.
Pur nella diversità con lo Stucky cinematografico, lo Stucky televisivo riesce a trasmettere quella visione del mondo, quel modo di rapportarsi alle cose. Un personaggio compassato e arguto, capace piano piano di dedurre la malvagia stupidità delle cose che ci accadono oltre che l’assassino.
Il metodo è quello del Tenente Colombo. Il colpevole lo si vede nelle prime scene, il resto è un’indagine che si avvicina passo dopo passo, intuizione dopo intuizione, alla risoluzione del caso. C’è qualcosa del Tenente Colombo anche nello Stucky televisivo, un omaggio sottile e amorevole verso il personaggio interpretato da Peter Falk (ma già nei romanzi un nesso c’è, sebbene la costruzione narrativa sia da libro e non da telefilm). Ed è un omaggio grazioso, che serviva. Perché in un periodo di ispettori tutti un po’ alfa, tutti un po’ geni e un po’ segugi, spesso pieni di zone di luci e zone di ombra tendenza noir, ci mancava un ispettore da un giallone classico, di quelli che vanno piano, amano l’osteria e che all’automobile preferiscono le passeggiate per schiarirsi le idee.