Paolo Petrecca, direttore Rai news (Ansa)

La storia

Rai "clandestina". La battaglia dell'Usigrai, la Crusca della Tv, contro le "parole" della legge Bossi-Fini

Carmelo Caruso

La lettera del sindacato dei giornalisti Rai dove si invita a non parlare delle legge citando "reato di immigrazione clandestina", ma cambiarlo con irregolare. E' il Polticamente dolcificato

Queste sono le formidabili battaglie dell’Usigrai, il Cln della Rai, il sindacato dei giornalisti con la coccarda: le valorose le abbandona, le linguistiche le cavalca. Accade che una bravissima inviata di Rai news 24, come Enrica Agostini, commetta un lapsus, in diretta, e chiami la premier Meloni “la presidente del coniglio”, stessa espressione usata alla Camera da Elly Schlein. Bene, dalla sua redazione, una manina interessata (ha lasciato anche l’impronta della matricola) taglia meticolosamente il video per diffondere la clip il più possibile, per sporcare la giornalista Agostini, la sola che ha avuto il coraggio di raccontare cosa accade in Rai, la sola che pubblicamente ha denunciato il bavaglietto dei direttori melonarchi, spiegato come in Rai si nascondono le notizie.

Sarebbe bastato difendere Agostini, con passione, ma l’Usigrai si lancia in un’altra battaglia: chiede ai direttori dei Tg, quando si parla della legge Bossi-Fini, di sostituire l’espressione “reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” con “immigrazione irregolare”. E’ la legge, e non i giornalisti, a parlare di “reato di immigrazione clandestina”, e si può discutere se la legge sia sbagliata o meno, come si fa da anni, ma per quale ragione un giornalista, un deputato, dovrebbe sostituire la legge con il dolcificante? E’ una delle grandi battaglie che tutte le bocciofile dei giornalisti, i sindacati (quelli che per oltre dieci non vedevano i giornalisti “clandestini” nei grandi gruppi editoriali) portano avanti. Sono state emanate Carte che vengono fatte studiare ai praticanti e tutti i Sartre del giornalismo italiano, quando vogliono elevarsi a   sapientoni, giocano a  “clandestino o irregolare”? Non appena lo sbarbatello fa scena muta, salgono in cattedra e cominciano con la loro lezione, come fossero i rettori della Lettera 22. Un migrante non è un clandestino perché appena sbarca in Italia nessuno conosce la sua storia, non sappiamo se fugge da guerre, se ha diritto alla protezione. Tutto corretto, ma far dire a un collega “immigrazione irregolare” al posto “reato di immigrazione clandestina” è solo un modo per commentare una legge (che non piace) facendo finta di non farlo. Il 6 febbraio l’Usigrai, ha spedito una lettera ai direttori dei Tg spiegando che la Carta di Roma stabilisce di non usare questo termine e spiega che anche quando si parla di Bossi-Fini “si invita a sostituirlo con i sinonimi di immigrazione irregolare” o “illegale”. In generale, continua la lettera, “nel caso di dichiarazioni di esponenti politici, si invita a utilizzare le virgolette ‘clandestino’ per i siti Rai e nei sottotitoli, e a segnalare che si tratta di dichiarazioni nel caso dei servizi radiofonici o televisivi”. E sotto, ancora, si prosegue con una pioggia di “linee guida”, “codici deontologici”, inviti a “non etnicizzare le notizie”.

Le Carte, i codici sono la cassetta degli attrezzi del cronista dal tempo libero, quello che sa tutto, ma solo quello, il giornalista che, ipertutelato, possibilmente stanco del mestiere, passa la sua giornata a chiamare il collega per parlar male del vicino di scrivania. Il problema è che il collega che lavora, che deve passare pezzi, titolare, scrivere, e cercarsi la notizia del giorno dopo, è costretto ad ascoltarlo per non passare come cafone. Questa grandissima battaglia dell’Usigrai, in nome della lingua sana, si consuma in un’epoca in qui ogni nefandezza si può esclamare, dove, in America, Trump vince le elezioni e parla di cambiare nome al golfo del Messico, di prendersi la Groenlandia. Si consuma nel paese dove governa la destra, una destra che riempie i suoi quotidiani, i talk, dicendo che per anni le hanno impedito di parlare, che l’egemonia di sinistra usa il politicamente corretto come arma. Anche il calzolaio si è ormai convinto che il problema è “il politicamente corretto”, la lingua con il Dietor. L’Usigrai, che fa? Fa l’Accademia della  Crusca della Televisione. Anziché chiedere ai direttori di liberare i giornalisti, di non fargli raccogliere i sonori dei parlamentari (ne è arrivato perfino uno con il deputato che si registrava in doccia) chiede in nome di accordi, carte di Samarcanda, di sostituire la dicitura della legge, di mettere le virgolette nei servizi (come se vostro nonno, con la terza elementare, capisse la differenza delle virgolette). Una professione che tutti definiscono morta si aggrappa all’obiettività, alle Carte, si vanta di praticare giornalismo anglosassone e chiede poi ai loro direttori, in nome della Carta, di fare opinione senza dire di farla. Attaccano  Vespa quando fa i suoi comizi pro Meloni, ma sognano di parlare come Vespa, se solo ci fosse una Carta di Manduria da esibire.


 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio