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Sanremo 2025

Quel che resta del Festival di Sanremo 2025

Salvatore Merlo

Il Festival della Dc, intesa come Democrazia Conti. Le tre signore della musica che fanno, disfano, combinano. Le signore in ghingheri e i signori della Rai. Tutti a parlare di sé e tutti sempre in fila. Ma adesso è tutto finito

Femmine femmine e maschi maschi, dunque stacchi di gambe e giacche su petti nudi con abolizione della camicia o della maglietta. Verrebbe da dire che l’estetica di Sanremo 2025 sia stata quella dei sessi all’incirca tradizionali, con l’unica eccezione, forse, dei guanti di pizzo di Damiano David e dello strascico rosso di Cristiano Malgioglio lungo ben cinquanta metri: “E’ la coda dell’uccello del paradiso”.

   

Non sappiamo se quello appena concluso sia stato davvero il Sanremo dell’immaginario di destra, il “racconto collettivo e non di conflitto” di cui ha parlato l’amministratore della Rai Giampaolo Rossi, senza monologhi e pensierini recitati dal palco, senza pronunciamenti e pedagogia consolatoria. Un po’ ne dubitiamo. Forse, in realtà, è stato più il Sanremo della Dc, intesa come Democrazia Conti, la modulazione di frequenza del conduttore non mattatore, dell’“hobbit” – sono sempre parole di Rossi – che non si avventura e non rischia, ma tutto amministra con le qualità del mediano di Luciano Ligabue “che se non hai i piedi buoni lavorare sui polmoni”. Niente farfalline inguinali, nessun pensati libera, molti bambini prodigio, ostensione della sofferenza e della malattia, l’inclusione affidata ai disabili ma non ai colorati (fatta eccezione del conduttore tanto abbronzato che negli Stati Uniti l’avrebbero accusato di blackface), e nessuno scandalo di pubblicità occulta. Al punto che sbiadiscono nella memoria le sneakers bianche di John Travolta, e il ballo del Qua Qua con Amadeus e Fiorello, mentre s’impone invece una Rai buttafuori, come quei gorilla che selezionano all’ingresso delle discoteche del centro di Milano: molte collanine sequestrate ai cantanti, loghi censurati, ricerca del furbetto che ci prova a salire sul palco con un “riconoscibile” monile di Tiffany. Ché l’unica pubblicità ammessa è quella della Rai, la televisione indebitata che ha venduto tutti gli strapagati break pubblicitari raccogliendo 65 milioni e 258 mila euro, il +8,5 per cento sull’edizione del 2024. Ma che sia stato il Sanremo degli Anelli o quella della Dc, di Olly o di Lucio Corsi, il Festival 2025 ha ormai avuto termine, ha consegnato il suo fischiato vincitore alle classifiche e al mercato discografico. “La musica è finita / Gli amici se ne vanno”, come cantava Ornella Vanoni nel 1967, la quale tuttavia aggiungeva: “che inutile serata”. Ohibò. E’ stata inutile? Ai posteri l’ardua sentenza, noi chiniam la fronte al massimo share che volle in Carlo Conti più vasta orma stampar. Quello che segue è forse ciò che resta del Festival, cose viste, sentite, rubate.

 

Il Festival di Sanremo è in realtà un matriarcato, tutti sanno infatti che governano, vincono, dispongono e comandano le tre signore della discografia e dello spettacolo musicale italiano. Sara Daniele, capo della promozione Warner e figlia di Pino Daniele, Dalia Gaberscik proprietaria di Goigest, agenzia di comunicazione che segue diversi cantanti tra cui Achille Lauro e Tony Effe nonché figlia di Giorgio Gaber e Ombretta Colli, e infine Marta Donà, nipote di Claudia Mori, manager di Alessandro Cattelan (co-conduttore della finale), Olly, Angelina Mango, Marco Mengoni, nonché ex manager dei Maneskin. Gli artisti della di Marta Donà hanno vinto nel 2021 (Maneskin), nel 2023 (Mengoni), nel 2024 (Mango) e adesso con Olly anche nel 2025. Le tre signore della musica fanno, disfano, combinano. Tutto, o quasi.

 

All’ingresso del teatro Ariston, in fila per entrare, c’è la signora in ghingheri che viene da Femminamorta, provincia di Pistoia, e ha pagato settecentotrenta euro per trovarsi in platea dove siedono gratis anche Claudio Borghi, Roberto Vannacci, Alessandro Morelli, Massimiliano Capitanio e altri parlamentari della Lega. Pensa che fortuna. Poco più in là c’è anche la signora che fra dita e seni avrà un milione di gingilli addosso, e infatti sembra una cassetta di sicurezza ambulante. Benché il sospetto di bigiotteria sia molto alto visto che ha pagato solo centodieci euro per sedersi in galleria e vedere il ministro Adolfo Urso seduto in platea. Anzi, ha pagato centodieci euro per non vedere (buon per lei) il ministro Urso in platea, visto che dalla galleria non si vede un tubo.

 

Su via Palazzo, il dj milanese di una delle decine di radio locali che si sono trasferite a Sanremo, intervista in diretta i passanti. Sguardo stolido: “Ah lei stasera prova a imbucarsi all’Ariston? E dica, dica, secondo lei chi vince?”. “Jovanotti”. “Bravo! Un applauso al signore”. Un altro dj, radio siciliana, entra nel bar che sta di fronte al Casinò. Uno di quelli in cui ti vendono un panino di gomma con mozzarella di ovatta e olive che camminano ad appena sette euro. Con i tecnici della sua radio ha consumato tre panini, due cocacole, un’acqua e tre sambuche. Totale: 35 euro. Gli piglia un colpo. Chiede: “Ma tu, dico tu, questa sambuca, dico questa sambuca, a quanto la metti?”. “Tre euro”, gli risponde il barista. E l’altro: “Una volta a Catania uno mi ha chiesto quattro euro per un arancino. Sai che gli ho detto? Gli ho detto così: ’mpare, pigghiati due euro che sennò non ti dugnu mancu chisti. E fammi lo scontrino. Alché il barista: “Eh, ma io pago ottomila euro al mese di affitto”. Perché Sanremo è Sanremo, parappaparapappa.

   

La Rai può molto, ma non tutto. E il rito della conferenza stampa delle 12, che scandisce la routine sanremese, conferma un vecchio adagio della tv pubblica: “Questa è l’azienda che mette gli uomini sbagliati nei posti giusti”. Prendiamo il direttore dell’Intrattenimento Rai, Marcello Ciannamea, che in teoria sarebbe il responsabile del Festival. Quello che tutto muove e tutto sa. Non è così. In conferenza stampa il direttore rimane quasi sempre zitto. Quando riceve una domanda imprevista (“com’è possibile che l’Auditel digitale sia ogni giorno uguale: 400.000 visualizzazioni? Non le pare strano?”) suda come un candelotto di dinamite. Al colmo della confusione non si ricorda nemmeno i nomi dei co-conduttori del Festival (è capitato con Katia Follesa, ci ha messo quattro lunghissimi secondi a riaversi). Quando gli chiedono di spiegare i criteri utilizzati per stabilire che la collana di Tony Effe (“riconoscibile”) non può essere mostrata in diretta mentre gli anelli di Iva Zanicchi sì, risponde così: “E’ un processo di finetuning in progress”. Viene voglia di lanciargli una ciambella perché non naufraghi. Ma egli se ne accorge, e quando è allo stremo invia con gli occhi messaggi di sos rivolti all’ufficio stampa e al suo vicedirettore, Claudio Fasulo, che è il vero direttore. E’ infatti lui, Fasulo, quello che spiega e parla. Ciannamea ha più che altro il ruolo di leggere al mattino un foglio con i risultati Auditel che gli viene consegnato regolarmente già pronto da Roberta Lucca, direttrice del marketing. Dovrebbe spiegarli lei quei dati, ma se così fosse Ciannamea non saprebbe più che fare.

 

La statistica ufficiale certifica che a Sanremo siano accreditati 1.487 giornalisti, tra cui molti stranieri, “provenienti da ogni angolo del mondo, dal Cile all’Australia, dall’Argentina alla Francia”. Tuttavia in sala stampa, chissà perché, a ogni esibizione abbiamo trovato vuoti i posti dei colleghi stranieri che, chissà per quale motivo, si perdevano le indiscusse qualità canore di Tony Effe.

 

Alle due del mattino di mercoledì, alla Gintoneria, locale di piazza Bresca, piccolo cuore esausto della movida sanremese, c’è Achille Lauro seduto con alcuni amici e amiche. Un funzionario della Rai che lo conosce da anni si avvicina, e gli chiede se può fare una video-dedica alla figlia. Il cantante tatuato con una lacrima sul viso (ma non è Bobby Solo) ammette barcollando: “Non sono in condizione”. Il giorno dopo durante la diretta televisiva, alla fine del duetto, Elodie lo ha dovuto trascinare via dal palco. 

 

L’amministratore delegato della Rai, Giampaolo Rossi, appare e scompare al teatro Ariston durate le lunghe giornate che precedono la diretta serale del Festival. Cappellino di lana, occhiali Rayban a goccia che fanno un po’ Tomas Milian, complice la barba. Ma l’estetica poliziottesca è poi modificata, virando sul noir francese, da una elegante pipa Chacom. “E’ quella di Maigret”. Era arrivato a Sanremo consapevole di giocarsi l’osso del collo. Ritorna a Roma pensando di avere smentito quel clima tombale, da disfatta cosmica, che aveva avvolto la Rai quando Amadeus aveva deciso di lasciare la televisione di stato. Quando l’Usigrai, il sindacato eterno, diffondeva con allarme questo comunicato: “Amadeus lascia la Rai e si porta anche i format. Un guaio per l’azienda dove a governare restano i soliti noti”.

 

“Questa è una canzone che va a riprendersi il primo Rocco, c’è la denuncia sociale”, dice Rocco Hunt, che è molto simpatico se non fosse che parla di sé stesso in terza persona che sembra quasi Giulio Cesare nel De bello Gallico. Come molti qui a Sanremo, anche lui è incline all’autobiografismo. A un certo punto, per esempio, prima di salire sul palco, Damiano David illustra con vigore e convinzione “la mia nuova visione di me stesso”. 

 

A Sanremo si passa la giornata in fila. Per fare cento metri ci si mettono anche venti minuti, a seconda dell’orario. Il questore e il prefetto hanno organizzato controlli di sicurezza serratissimi – pare su suggerimento del sindaco – con metaldetector e perquisizioni personali che provocano code chilometriche per avvicinarsi al teatro Ariston e a piazza Colombo, dove si trova un palco chiamato “Suzuki stage”. Ma tutto questo è iniziato soltanto dopo che “Striscia la Notizia” ha mandato un video nel quale dimostrava di aver superato i controlli – prima umani – con un coltello. Mesi di preparazione, riunioni, conciliaboli, gabinetti di guerra, comitati per la sicurezza, ma il risultato è che, alternativamente, o si può entrare con un coltello o non si riesce a entrare affatto.

 

Clara esce dallo studio di una radio dopo aver concesso un’intervista. I ragazzi con lo smartphone in mano la guardano come i fanciulli guardano nel giorno di Pasqua le grandi uova di cioccolata dietro le vetrine. E lei si sente un vero uovo di Pasqua.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.