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(Ansa)
Magazine
La lunga notte di Miss Italia
Il documentario Netflix sull’abisso post Rai. Ma il problema era più la noia di un vecchio format che la “mercificazione” e "oggettificazione della donna". Si preferiscono le battaglie culturali a quelle reali e ci si dimentica di ciò che succede nel sottobosco delle selezioni di talent e reality
E’ l’estate del 2013 quando Laura Boldrini dal palco della Camera del Lavoro di Milano, incorniciata nel logo della Cgil, lancia la sua fatwa contro “Miss Italia”. Dopo venticinque anni di prime serate con Baudo, Frizzi, Bonolis, Carlo Conti e punte di share da Sanremo, la manifestazione è fuori dai palinsesti Rai. Non è più “in sintonia” con le funzioni del servizio pubblico.
“Scelta moderna e civile”, diceva Boldrini nel 2013 riguardo all’esilio da Rai 1. L’approdo a La7, il crollo degli ascolti, la malinconia del 2022
“La presidente della Camera plaude la decisione dell’azienda” e Boldrini si congratula con Anna Maria Tarantola, messa alla guida di Viale Mazzini da Mario Monti al culmine della purificazione postberlusconiana: “Scelta moderna e civile”, diceva Boldrini, augurandosi fosse “solo l’inizio” di una più vasta epurazione. Di sicuro era l’inizio della fine per “Miss Italia”. Esiliata dalla Rai, finisce su La7 dove resta in piedi qualche anno facendo ascolti miseri, avvitandosi in una manciata di edizioni di cui si hanno pochi ricordi (Simona Ventura conduttrice, giurie con Vladimir Luxuria, “Er viperetta”, Bastianich, le ragazze che a domanda “in che periodo storico saresti voluta vivere?” rispondevano “nella Seconda guerra mondiale!”). Mollata anche da La7, “Miss Italia” torna in Rai nel 2019 per celebrare gli ottant’anni. Peggio che mai: siamo nel climax del #MeToo, del “senonoraquandismo”, all’alba del wokismo all’italiana. Le associazioni femminili chiedono di annullare la trasmissione perché “lede la dignità della donna e non realizza contenuti volti alla prevenzione e al contrasto della violenza”. “Miss Italia” è ora l’anticamera del femminicidio. Un colpevole quasi perfetto. Vale tutto. A nulla servono le acrobazie del concorso che da tempo provava a sintonizzarsi sui tempi nuovi, togliendo fascette e numeretti, mescolandosi alla tv del dolore, sfoderando casi di bullismo, Miss Curvy, la ragazza-madre, la concorrente catechista, quella lesbica, quella che non ha i social, quella vittima di stupro, la Miss con la protesi. Agonizzante da anni, messo alla gogna su TikTok, dichiarato “cringe” a furor di popolo, “Miss Italia” esce di scena. Via la tv, via le luci, via gli sponsor.
Le proteste esistono solo sui social, nei giornali, negli editoriali indignati. Nessuna notizia dalle piazze o dai centri commerciali dove sfilano le ragazze
Per entrare in questo “dark side” del fatidico concorso che fu pezzo di storia e antropologia nazionale c’è ora un documentario appena uscito su Netflix, “Miss Italia non deve morire” (prodotto da Gabriele Immirzi per Fremantle e Tommaso Bertani per RingFilm). Un’esortazione. Forse un auspicio. Anche perché “Miss Italia” – che in confronto al “Gf” o alle mostruosità dei talk-show sembra la serata dei Nobel – resiste in un mondo reale fatto di selezioni, casting, provini, balletti, agenti regionali, assessori e tutta una provincia italiana dove il woke, vivo o morto che sia, non si sa bene neanche cos’è. Le proteste se la prendono col simbolo. Esistono solo sui social, nei giornali, negli editoriali indignati. Non si hanno invece notizie di contestazioni nelle piazze di paese o nei centri commerciali dove sfilano le ragazze. Sono infatti stupende le facce del plotone di agenti regionali all’inizio del documentario, radunati in un albergone romano sull’Aurelia, quelli dei meeting di endocrinologi e conferenze sulla prostata, mentre Patrizia Mirigliani prova a spiegare che i tempi non sono più quelli, la bellezza è cambiata, le ragazze devono infilare i congiuntivi, è tornato il femminismo, il patriarcato ci guarda. Gli agenti scuotono la testa, sono perplessi, scocciati. Pensano alla solita tiritera sul “contenuto”, la “personalità”, “votatemi per come sono non per come apparo”.
Confondere lo show con le maratone di “Telethon”, forse anche per via di Frizzi. La frantumazione dei tempi televisivi, ingressi e numeretti in loop
Ma i tempi stavolta sono cambiati sul serio. “Miss Italia non deve morire” parte dall’edizione del 2022, la più malinconica di sempre. Una serata finale trasmessa in streaming su YouTube da una specie di scantinato, l’aria da sagra della porchetta, sponsor rionali, il pubblico stipato in poche file di sedie come a una riunione di condominio, le ragazze che recitano poesie di Pavese, sguardo fisso, voce robotica, raccontano il loro “percorzo” tra coreografie imbarazzanti, sbadigli e un allibito Massimo Boldi in giuria. Una “Miss Italia” che non è più una sfilata ma una seduta di autocoscienza, un po’ happening di “Amici” senza canzoni, un po’ kammerspiele di “C’è posta per te” in un crossover con “Non è la Rai”. Un’edizione allo sbando. Massacrata sui social. Del resto, “quando le cose vanno male”, dice Patrizia Mirigliani nel documentario, “la gente ci gode”. Nella mia memoria di spettatore cresciuto alla fine degli anni Ottanta, “Miss Italia” era soprattutto Fabrizio Frizzi circondato dalle bathing beauties, Rai 1, località termali per anziani, ragazze in ottima salute come in una pubblicità di integratori, indistinguibili tra loro dopo la quinta o sesta passerella. E anche se Enzo Mirigliani era un po’ il nostro Hugh Hefner, lo show di “Miss Italia” era fuori da ogni orbita di erotismo anche vago o subliminale. Uno show messo in scena più per i commenti delle donne a casa sui centimetri di fianchi e cosce delle girls che per lo sguardo allupato dei maschi che casomai si guardavano “Baywatch” (forse anche per via di Frizzi lo confondevo spesso con le maratone di “Telethon”).
Il problema di “Miss Italia” in tv non mi sembrava la “mercificazione della donna”, ma la frantumazione dei tempi televisivi, una noia spettacolare, assenza di format, con quella sfilza di sorrisi e ingressi e numeretti che entrava in loop e sarebbe potuta durare una settimana come una performance di Marina Abramovic. E mentre “Miss Italia” annaspava senza un’idea televisiva capace di rilanciarlo, i tempi cambiavano, la bellezza diventava una colpa, e un concorso fondato sul patrimonio genetico una brutale manifestazione di diseguaglianza – tutti discorsi vecchi, roba anni Settanta, ma nel frattempo istituzionalizzati e resi “senso comune” progressista. “Miss Italia non deve morire” è anche una saga famigliare. I Mirigliani come “I Buddenbrook” dei concorsi di bellezza: Enzo, “il patron”, che crea un impero dal nulla, lo trasforma in uno dei grandi brand italiani nel mondo, la figlia Patrizia che eredita l’impero nell’ora più buia, il nipote scapestrato che non aiuta la causa. Una storia americana, ma al contrario. Ci sono personaggi di contorno incredibili: l’agente siciliano, “ex manichino vivente”, che organizza “Miss Ippodromo del Mediterraneo”, c’è quello che non riesce a pronunciare “hashtag”, c’è l’agente pugliese, ex finalista a “Miss Mondo” che dice “togliti davanti a Netflix per favore” se qualcuno le passa davanti nel backstage. C’è la ragazza alternativa di Bagni di Tivoli coi capelli corti che si iscrive per fare un dispetto al concorso, dimostrare che i canoni di bellezza non esistono, mentre mamma e papà sono felicissimi di vederla per una volta sui tacchi, in costume da bagno (lei è bravissima, meritava una storia scritta su misura, del resto continuiamo a chiamare questi prodotti “documentari” ma di fatto sono film con dialoghi migliori di molti titoli italiani mandati nei festival). E poi la suspense, l’agognato ritorno in Rai, l’attesa, le telefonate coi funzionari, forse con Giorgia si rientra in pista, chissà, e invece niente. Neanche la destra sembra interessata. “Miss Italia” non è abbastanza patriota.
Si fanno risalire le prime contestazioni a “Miss Italia” al clima del ’68, alla protesta globale che dichiara il concorso vecchio, sorpassato, offensivo, ecc. E’ l’anno del boicottaggio contro “Miss America”: duecento femministe fanno irruzione sul lungomare di Atlantic City, sventolano striscioni, mettono su un flash-mob, una gigantesca “pattumiera della libertà” in cui scaraventano reggiseni, corsetti, pentole, spazzoloni e tutta l’oggettistica della donna schiava del patriarcato e dell’economia domestica (c’è chi dice che la seconda ondata femminista comincia qui). Poi due anni dopo ecco il sabotaggio di “Miss Mondo” a Londra: le attiviste salgono sul palco, interrompono la manifestazione davanti a milioni di spettatori e lanciano pomodori, bombe di farina, ma è anche l’edizione con la prima vincitrice nera, Jennifer Hoster, già “Miss Grenada”. Il tempo dei concorsi di bellezza sembrava finito. Ma la storia degli attacchi a “Miss Italia” è lunga quanto il concorso e in questi ottant’anni la manifestazione ha resistito più o meno a tutto: ai cattolici, alla destra, ai comunisti, al femminismo radicale, al woke. Il primo tentativo di chiudere “Miss Italia” è in un Disegno di legge del 1954 proposto dall’onorevole Bortolo Galletto della Democrazia cristiana, un nome che sembra uscito da una commedia all’italiana di Sonego. Divieto assoluto di ogni concorso di bellezza e pene severe per i trasgressori: “Il danno morale provocato da codeste iniziative”, diceva Galletto, “è talmente grave da richiedere un provvedimento proibitivo e radicale. Queste manifestazioni, che in genere si svolgono in ambienti lussuosi o equivoci, favoriscono le corruzioni e facilitano i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”. E’ la Dc di Scalfaro che svergognava in pubblico le audaci spalle scoperte di Edith Mingoni Toussan, del Papa che invitava gli italiani a “non abbandonarsi alla concupiscenza della carne”, dei vescovi che privavano della benedizione pasquale le case degli organizzatori dei concorsi di bellezza, dei membri delle giurie, degli assessori locali, delle partecipanti e di tutto i loro famigliari fino al settimo grado.
E insieme a strali, decreti, circolari, c’erano già le contromanifestazioni. Giorgio La Pira e l’Onorevole Tambroni promuovevano il concorso “Donna Ideale” per incoronare non la più bella ma la più brava nel fatidico compito di madre e sposa italiana. “Donna Ideale” era praticamente un talent per massaie: le concorrenti si presentavano in costumi folkloristici, preparavano da mangiare, cucivano piatti tipici, ricamavano, stiravano, lavoravano a maglia. In giuria tutti maschi. Poi c’erano i comunisti con la “stellina dell’Unità”, che naturalmente doveva essere bella “ma anche” intelligente, avere solide letture alle spalle, come le book influencer che oggi su TikTok sfoderano un po’ di tette e un po’ di Adelphi. La “stellina dell’Unità” vinceva una macchina per cucire, e con la “Donna Ideale” di La Pira si ricomponeva in un’unica figura mitica, donna, madre, sposa, operaia, militante. Il concorso però non decollava (chissà perché) ma i comunisti insistevano. Ecco allora “Miss Vie Nuove”, dal nome del rotocalco popolare del Pci fondato da Luigi Longo, con tutta una cornice intellettuale dietro a dare anche prestigio, spessore, supporto etico e morale: Alberto Moravia ed Elsa Morante, Carlo Levi, Lizzani, Aldo Vergano. “Miss Vie Nuove” era un ponte per il cinema alternativo a Miss Italia, “volti nuovi per lo schermo, volti popolari”, bellezze approvate dal Pci, una via neorealista e popolare al divismo, senza lustrini, trucchi e ciprie hollywoodiane. “Miss Italia” e “Miss Vie Nuove” dialogavano come in un grande prequel del compromesso storico: testimonial come Gina Lollobrigida, Lucia Bosè, Silvana Mangano collaboravano con il premio comunista. Sophia Loren fu addirittura “madrina” nel 1954. Da “Miss Vie Nuove” uscirà però solo una celebrity, Edy Campagnoli, la “valletta muta” di Mike Bongiorno in “Lascia o raddoppia”. Poi il concorso sarà seppellito negli anni Settanta, contestato dalla Nuova Sinistra e dalle femministe, indignate alla sola idea che potesse esistere una miss comunista o una “via socialista” alla mercificazione delle donne. Alla metà degli anni Ottanta, Enzo Mirigliani tirava un sospiro di sollievo: “Sono passati i tempi bui”, diceva, “quelli in cui si sputava su questa manifestazione, sulla mercificazione della donna”. L’aria era cambiata, di nuovo una gran voglia di modernità, come all’epoca del Boom. Il pericolo di una chiusura era alle spalle. “Miss Italia” aveva retto, “Miss Italia” si rilanciava. Tra le tante categorie classiche (“Miss Cinema”, “Miss Eleganza”, ecc.) spuntava anche “Miss Computer”, “designata da un calcolatore elettronico”, spiegava Mirigliani, “dopo aver immagazzinato i dati di tutte le concorrenti”.
Come si potrebbe rilanciarlo oggi? Forse non puntando sulla “dolenza” e il “vissuto”, con storie che sembrano uscite dalla cinquina dello Strega
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Miss Italia” era pronta per algoritmi e intelligenze artificiali. Ma da lì inizia a cedere il passo. Come si potrebbe rilanciare oggi il concorso? Forse non puntando sulla “dolenza” e il “vissuto”, con le storie delle ragazze che sembrano uscite dalla cinquina dello Strega, ma trovando qualche idea televisiva, quello che negli ultimi anni non c’era. La verità è che “Miss Italia” vivacchiava di rendita del suo passato glorioso, chiusa in un mondo vecchio, sorpassata e oscurata dai talent. L’ultimo guizzo di modernità fu l’elezione di Denny Mendez, prima reginetta non bianca, tra polemiche furibonde su canoni e controcanoni della bellezza italiana e “Miss Italia” che diventava la nostra via al multiculturalismo. Ma era trent’anni fa. Il boldrinismo e il femminismo woke hanno sparato su un cadavere e – come spesso gli capita – sul bersaglio sbagliato. Nel documentario, Patrizia Mirigliani lo spiega molto bene. Mai uno scandalo in ottant’anni di “Miss Italia”. Mai una denuncia. Ci si accanisce contro “l’oggettificazione della donna” perché si preferiscono le battaglie culturali a quelle reali: si dimentica evidentemente quello che succede nel sottobosco delle selezioni di talent e reality, nei provini cinematografici, nel mondo delle agenzie dello spettacolo improvvisate, dove spesso non c’è nessuna rete di protezione. Che invece resiste ancora negli anacronistici concorsi di bellezza.