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Adolescence mette a nudo la nostra solitudine estrema

La miniserie in quattro episodi su Netflix racconta i nostri figli e il mondo in cui vivono ed è un documento brutale sulla condizione attuale di noi adulti

Mario Leone

Alle 6 del mattino, il detective Luke Bascombe riceve un audio da suo figlio Adam che gli comunica di non voler andare a scuola a causa di un forte mal di pancia. Pochi minuti dopo, Eddie Miller assiste all'arresto del figlio tredicenne Jamie, accusato di aver ucciso Kate, sua compagna di classe, la sera prima. Le operazioni di arresto sono guidate proprio dal detective Bascombe e da una squadra di poliziotti che devastano la casa e le vite di tutta la famiglia.

 

Così inizia Adolescence, la miniserie in quattro episodi in onda su Netflix, scritta da Jack Thorne e Stephen Graham (che interpreta Eddie Miller) e diretta da Philip Barantini. Un capolavoro girato tutto in unico piano di sequenza, con una sceneggiatura drammaticamente realistica ed evocativa, interpretazioni di altissimo livello in grado di scuotere il pubblico, sballottato tra alterni sentimenti di commozione e dolore.

 

I primi due episodi si svolgono negli ambienti della polizia, dettagliando le procedure d’arresto e la definizione di un impianto accusatorio che possa condurre a una rapida – e, soprattutto per il detective Bascombe (Ashley Walters), indolore – soluzione del caso. Ed è proprio in questo frangente che la serie sterza lungo una via inaspettata, dimostrando tutta la sua genialità: una volta accertata la colpevolezza del ragazzino (non si tratta di spoiler, poiché il filmato dell’omicidio viene immediatamente sbattuto in faccia al figlio e a suo padre), la narrazione si concentra sul perché, per poi effettuare un’ulteriore virata verso il vero obiettivo della storia. 

 

Adolescence non è né un giallo né un poliziesco; è piuttosto un film dedicato ai nostri figli e al mondo in cui vivono, un universo a noi sconosciuto. Infatti, la durezza e la bellezza (non c’è vera bellezza senza un colpo che faccia male) risiedono proprio in questo: Jamie Miller (interpretato dal debuttante Owen Cooper) potrebbe essere nostro figlio. È un ragazzo che se la fa sotto quando la polizia entra in casa, sbatte i pugni, invoca l’aiuto del padre. Jamie però è molto altro (ma che cos’è e soprattutto chi è?): una persona capace di fare del male (come tutti), spesso inconsapevolmente, pieno di ira. Jamie e i suoi coetanei vivono in un mondo fatto di regole e dinamiche che crediamo di comprendere e gestire ma dal quale siamo lontani e inermi. Eddie e sua moglie si tormentano, cercano di individuare possibili errori ricordando come la sera dell’omicidio abbiano esortato il figlio a spegnere il PC e, subito dopo, siano stati ascoltati. Nel frattempo, il detective Bascombe prosegue le indagini seguendo un filone completamente errato, tanto che sarà suo figlio a fargli aprire gli occhi sulle dinamiche dei social. E poi c’è la scuola che tenta di recuperare una normalità dopo i fatti di sangue e invece mostra a tutti la sua fragilità: urla, confusione, risse, disordine e “puzza di masturbazione” accolgono la polizia che cerca un movente e ritrova insegnanti esauriti che sanno solo minacciare sospensioni.

 

Questa serie è un pozzo senza fine di temi, spunti, particolari, suoni, silenzi (la terza puntata toglie il fiato come in un perfetto film horror), piccoli gesti. Si parla di misoginia (il mondo della “manosfera”), femminicidi, cultura; un hub online di uomini che si descrivono come celibi involontari e incolpano le donne per le loro difficoltà a stabilire legami romantici. Ma soprattutto è un documento brutale sulla condizione attuale di noi adulti. Tutti ne escono sconfitti e inermi. La famiglia Miller che cerca finti modi per ricominciare; il detective Bascombe che vuole chiudere la vicenda e sente la paura di avere un figlio coetaneo e compagno di scuola di Jamie. La psicologa Briony Ariston (Erin Doherty) che termina in lacrime un lungo interrogatorio con il ragazzo.

   

Tutto e tutti cadono sotto i colpi di giovani incomprensibili che non sanno agganciare da nessun punto di vista. Gli adulti piangono, sbattono i pugni, organizzano strategie e analizzano ogni fattore, anche i movimenti del corpo ma non riescono a guardare al cuore. Quello di Jamie è pieno di domande, sentimenti contrastanti. Un cuore che lo fa sentire brutto e non amato da nessuno. Un cuore che soffre per i commenti sui social, a scuola, ma in fondo anche in famiglia. Una solitudine estrema di ogni singolo protagonista e un finale che mostra, dietro l’urlo di Eddie soffocato da un cuscino, un infantilismo quasi patologico, spaventosamente attuale, drammaticamente nostro.

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