David Moretti (foto magCulture via Vimeo)

Sbatti Zuck in copertina

Michele Masneri

David Moretti, l’art director che ha guidato Wired fino all’ultimo (preveggente) numero col fondatore di Facebook

San Francisco. “Naturalmente non potevamo prevedere quello che sarebbe successo poi” dice David Moretti, direttore creativo (uscente) di Wired, ideatore della copertina di marzo col Mark Zuckerberg incerottato e dolente. Mentre Facebook crolla in Borsa sulla questione dei presunti dati rubati e finiti in mano a macellerie elettorali, quello con l’incerottamento dell’eroe (un tempo) di Silicon Valley è anche l’ultimo numero firmato da Moretti, milanese trasferito in California solo tre anni fa.

   

Quinoa e salmone fresco, siamo nel ristorantone interno della rivista americana a SoMa, ex zona industriale disastrata e oggi terreno di coltura delle più fondamentali startup. “Wired è nato a San Francisco, unica testata del gruppo Condé Nast a non essere a New York”, dice lui, “poiché legato alla cultura tecnologica californiana, all’università di Berkeley, al movimento hippy. Se ti affacci alla finestra, lì è dove è nato Twitter, poco lontano c’è l’autostrada che porta in Silicon Valley. Qui intorno non c’era niente. Infatti il primo ad essere assunto da Wired fu il cuoco, perché non c’erano bar per mangiare”.

   

Sui monitor campeggia una finta copertina che i suoi gli hanno fatto per salutarlo, coi suoi tic (“le famose riunioni da cinque minuti che ne durano quarantacinque”) e altrove campeggia invece la vera copertina di marzo. “E’ un’illustrazione iperrealista, non è un ritratto fotografico”, dice Moretti. “Basata su un ritratto poi rilavorato; è opera di Jake Rowland, artista e fotografo, che ha manipolato l’immagine fotografando altre persone, e poi pezzo per pezzo ha montato quelle facce su quella di Zuck”. “Volevamo rappresentarlo come un combattente, che, ferito, si rialza, sta cercando di aggiustare Facebook. L’idea è quella di un’opera d’arte che rappresentasse anche l’inchiesta più completa che Wired possa fare sull’argomento”. In effetti sono quattordici pagine fitte fitte che si leggono come il romanzo di Silicon Valley (soprattutto col senno del poi); “Nicholas Thomson, il nostro direttore, ha intervistato più di cinquanta persone, una cronistoria di quanto è avvenuto negli ultimi due anni, da quando Facebook ha cercato di vincere la gara contro Twitter tentando di batterla sul loro terreno, quello delle news”). Reazioni? “Facebook ha molto apprezzato il pezzo, ma sulla copertina ha detto che ci si è spinti un po’ troppo in là”.

  

Certo qui tra stuoli di Tolomeo Artemide, mattoni a vista, redattori-designer a perdita d’occhio, vengono in mente i nostri disgraziati giornali italici. Com’è lavorare a un magazine americano? “In Italia a Wired c’erano una ventina di persone”, dice Moretti. “Qui sono centoquaranta, e questa è la prima grande diversità. Abbiamo un milione di copie vendute ogni mese, un miliardo di utenti online. E poi la macchina editoriale è impressionante: pezzi che vengono pensati per sei-otto mesi, poi magari non vengono neanche pubblicati”. E avete anche voi quelle squadre bestiali di fact checkers leggendari? “Assolutamente, abbiamo otto persone che fanno controllo costante”.

   

Prima di arrivare a Wired (Italia e poi Usa), “tirando fuori finalmente la mia anima nerd”, Moretti ha lavorato in molti altri posti e fatto molte altre cose. Era il frontman dei Karma, “eravamo uno dei gruppi grunge importanti a Milano, ventisettemila copie vendute, due album”. “In Italia pare una cosa bizzarra, qui è molto normale, anzi interessante. Quando sono arrivato a San Francisco ero vice direttore creativo, e il mio capo era un musicista. Uno dei miei grafici è il fondatore di un gruppo Indie, i Camper Van Beethoven. Victor continua a fare tournée, ora per esempio è in tour in Arizona”, dice Moretti mentre raccoglie le sue copie di Wired (“di cui ero collezionista anche prima”).

  

Prima però delle apoteosi siliconvalliche, infanzie milanesi. “Mio papà era una delle anime creative del Corriere della Sera. E non voleva assolutamente che facessi il suo lavoro. Così ho fatto scienze politiche e storia. Non mi dava mai una lira, però, per cui ho fatto qualunque tipo di lavoretto, soprattutto in tipografia, e per pagarmi l’università ho cominciato a lavorare come account in una piccola agenzia di pubblicità, perché ero bravo a intortare la gente. Poi mi invento una cosa, Progetto Moda. Sapevo da mio padre che molte società della moda, soprattutto quelle piccole, non erano soddisfatte di come venivano trattate dai giornali. Allora mi invento un sistema per cui noi compravamo le pagine di pubblicità e prestavamo noi i direttori creativi ai giornali, gli facevamo anche sconti sulle modelle (nel frattempo io avevo fatto anche il driver per un’agenzia di modelle), con buoni fotografi, tutto a costi bassissimi: e cominciano ad arrivare clienti, tipo Gold Market, te li ricordi? Facevano bigiotteria in oro. E Mandarina Duck”. “Era un mondo preistorico, lavoravamo con la pellicola, il taglierino, non c’erano i computer. I computer li usavo invece per la musica, c’erano i Commodore e gli Amiga”.

  

Poi arriva Mani Pulite, “finiti i soldi e l’entusiasmo, e io comincio a fare i dischi, e non solo faccio i miei ma curo l’immagine anche di altri, disegno quelli dei Tiromancino, collaboro coi Casinò Royale, viviamo in una casa occupata a Milano perché nel frattempo non c’era più una lira”.

  

“Poi basta anche con la musica ed entro a lavorare a Max. Grazie a un festival musicale che facevano loro e si chiamava Max Generation. Una volta porto con me il mio portfolio e il direttore Paolo Bonanni mi dice: belle queste cose. Ma a calcetto come sei messo? Io a calcetto ero una pippa tremenda, ma dico che sono bravissimo, esco e di fronte alla sede della Rizzoli c’è un negozio di sport; compro un paio di scarpe ma non ci sono della mia taglia e le prendo di due numeri più piccoli. Facciamo questa partita, e sotto la doccia mi dicono: ‘allora settimana prossima cominci’. E da lì inizia tutto. Solo che per quelle scarpette mi saltano le unghie di tutti e due gli alluci”.

  

“Paolo è quello che ha inventato i calendari, vendevano milioni di copie, con la Ferilli un milione. Quando sono arrivato facciamo il calendario con Alessia Marcuzzi in Brasile. Bonanni era un genio dell’editoria e aveva ricevuto Max in eredità da Paolo Pietroni, probabilmente l’uomo che ha inventato più giornali in Italia (oltre a Max e Amica, Sette e lo Specchio). Era l’art director che diventa direttore, un mito. Amica era la prima rivista di quel genere che teneva il confronto con quelle straniere. Sta in tutti i manuali di grafica. E poi il suo Max era un giornale molto hollywoodiano, e con un’estetica per l’epoca molto gay, con attenzione spasmodica della fotografia, il formato gigante, ispirazione l’Interview di Warhol. Altri tempi, oggi nessuno potrebbe permettersi centomila dollari a servizio, tranne Vanity Fair America o Vogue”.

  

“E poi dopo Max molti giornali: Newton, Capital, le varie riviste internazionali di Rcs”. “Poi lanciamo Rolling Stone Italia, trasformando un magazine musicale in uno dedicato allo stile. Realizzo il sogno, un giornale fatto con gli amici che sono anche i migliori professionisti su piazza. Coinvolgo Carlo Antonelli, che fino a quel momento era direttore artistico di Caterina Caselli, e Michele Lupi”. Poi Wired. E il salto in America, lasciando Milano e spostandosi in una casa nel bosco nella baia di San Francisco coi figli e la moglie Marina Pugliese, storica dell’arte e già direttrice del Museo del Novecento (“ma siamo sempre stati due avventurosi”).

   

Anche l’avventura dei giornali cartacei è finita per sempre? Il ceo del New York Times ha detto che dureranno dieci anni al massimo. “Il quotidiano molto probabilmente sì, perché ormai mancano i luoghi e le ritualità. Una volta si andava al bar e all’edicola. La stampa periodica di massa non ha più senso. Non tocca il vero interesse delle persone, perché quel tipo di informazione la puoi trovare in mille altri luoghi. Oggi invece si cerca una passione. Così stiamo assistendo a un momento molto interessante, nella fattura di oggetti meravigliosi, di ricerca sulla carta. Qualcosa di unico che trovi solo in quei luoghi: una delle riviste più belle è Brownbook”, dice Moretti riferendosi al patinatissimo magazine. “E’ stato definito il Monocle del Medioriente, ma è sbagliato. Monocle ormai è un catalogo, ti vende il mobiletto, la giacchina, la candela, e a quel punto se vuoi un catalogo c’è Mr. Porter. Brownbook invece ha una prospettiva completamente diversa di lettura del Medioriente. I luoghi sono sorprendenti ma accessibili, e poi il formato è super interessante, c’è il poster, un libercolo, una raccolta di poesia, una cartolina, una serie di reperti, c’è molta esperienza tattile”. Un altra rivista che gli piace è il California Sunday Magazine, che è anche uno show nei teatri, “e trasforma il contenuto giornalistico in spettacolo”. Il bello di Wired, dice, è che non c’era distinzione tra la carta, l’online e il video, si partiva “da un’idea e poi la si declinava”. Con squadre di sceneggiatori e montatori e non solo grafici e giornalisti. E adesso declinando ancora in un nuovo modo futuribile, dopo aver firmato la sua ultima copertina, lui va a lavorare ad Apple, con un nuovo incarico prestigiosissimo di cui non può dire nulla, con la segretezza dei colossi siliconvallici. E dalla tipografia milanese al Commodore, a Cupertino, la sua sembra una speciale autobiografia delle news, e non solo di come si disegnano.

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