Consumi vistosi milanesi
Nuovi negozi, nuove architetture. Al tempio del caffè di Starbucks e all’Apple Store di piazza Liberty. Sopralluoghi
C’è un unico ostacolo al mito e alla definitiva consacrazione di Milano capitale italianaeuropea: il meteo. Così per esaminare le nuove architetture dei consumi milanesi, il primario Starbucks delle polemiche e l’archiginnasio Apple di piazza Liberty, appena si sbuca dalla metro Duomo, ecco la cappa, il grigio, la caldazza umida e lattiginosa.
Il palmizio subtropicale a piazza del Duomo delle polemiche precedenti - proudly sponsored by Starbucks, recita il cartello – serve così a far ombra a un gruppo di ragazzi africani, forse scappati dalla Diciotti. Si arranca fino a piazza Cordusio ed ecco, in faccia all’edificio concavo delle Generali, un Blenheim Palace con cupola e fondo oro, l’ex palazzo delle Poste ora coffee shop. Sotto lo sguardo perplesso dell’abate Parini scorre la famigerata coda di fronte ai gazebo e rampicanti di questa caffetteria divisiva: un barista Jacopo offre alle folle del caffè fatto col “drip” cioè col bollitore. Dopo soli quindici minuti trascorsi tra i cordoli dorati come a una prima del festival di Venezia si è dentro.
E’ un fuorisalone del caffè. Una gigantesca macchina torrefatrice e un cilindrone bronzeo colossale collegato tanti tubi tipo flebo che portano le miscele a varie macchine del caffè sparse fra tanti banconi. Tutto sui toni del bronzo e dell’oro. Esposizioni museali: “the Cimbali machine” e “la San Marco” protette da altri cordoli (avranno probabilmente più visitatori dell’Ultima cena). Musica lounge anche molto alta, vasto merchandising ma non cheap come nei vari Starbucks in giro per il mondo: qui set di tazzine heritage in edizione limitata a 36 euro, bandana tipo Berlusconi in Sardegna coi Blair 20; poi un reparto design con opere di Matteo Cibic (400 euro), una Vespa fiammeggiante del primario designer Kyler Martz (non c’è prezzo).
Le pareti, bronzee, altissime, recano incise le mappe e le pietre miliari dell’impero del caffè: “2010, il presidente Howard Schultz torna a ricoprire il ruolo di amministratore delegato!” (scolpito letteralmente nel bronzo); “2005, viene introdotto il primo bicchiere di carta con fibra riciclata”. Tipo i trionfi di Roma ai Fori imperiali.
Mentre la musica fa tunz-tunz (pare un negozio Abercrombie, ma senza profumo: misteriosamente, pur con la mega torrefatrice al centro, di caffè non c’è il minimo aroma), ci si accorge che questa “Reserve Roastery”, che è la fascia alta delle caffetterie americane, non solo ha abolito il frappuccino; anche i classici nomi scritti sbagliati col pennarello sui bicchieri di carta sono negati (vergognandosi delle origini? Non fa fino?).
Dentro, altre file e ulteriore apartheid. A destra di questi banconi lussureggianti, sotto le pareti dei trionfi, giovani internazionali strisciano carte di credito mentre da tubicini sgorgano acque in alambicchi tipo piccolo chimico. “Vuole provare l’esperienza siphon?” chiede in milanenglish una commessa. Sarebbe poi il sifone. “E’ qui per una experience al brewing bar?”, si informa, “o forse solo per un espresso, immagino”, si corregge, deducendo il mio 740 dalla mia espressione.
All’altro angolo della zona experience, misteriose gelatiere impastano “gelato all’azoto”, spiega un ragazzo gentile. Sifone o azoto, il bibitone americano per cui questo tempio della caffetteria sorse e si affermò è insomma fortemente scoraggiato (ma pagherà come tecnica? Come se da McDonald’s offrissero il bollito non bollito. O come quando si va in certi paesini famosi per piatti molto rustici e pesanti e poi ti propinano la quinoa).
La zona gelato all’azoto confina con l‘ambiente smart o seconda classe: quelli del caffè semplice, che si son fatti un’altra mezz’ora di fila suppletiva e aspettano con lo scontrino in mano, senza neanche il nome storpiato, uffa.
Ma il consumo di caffè è chiaro che qui è minoritario. Prevale il discorso sul caffè. E dunque ecco un reparto di caffettiere le più imaginifiche: protagonista è il micidiale bollitore in rame conico, con beccuccio lezioso, che in America è molto di moda e si è imparato a evitare – il rame è superconduttore, il manico fonde, si rischiano ustioni di terzo grado. Achille Castiglioni si rivolta nella tomba. “In effetti va fatta un po’ di attenzione”, conferma la commessa (prezzo 150 euro). Poi c’è il suddetto sifone (“portati a casa un siphon e avanza di un livello nella tua capacità di estrarre la tazza di caffè perfetta”, recita la targhetta. 120 euro). Infine il “Pour over”, che sembra uno di quei premi di scultori locali che danno ai festival estivi, è un prisma di calcestruzzo con una mensola di legno e un portafiltro di ceramica (380 euro).
Si esce stupiti: è chiaro che il marketing americano più roboante ha incontrato la miglior vetrinistica milanese: chi sognava finalmente un sofà ove bivaccare scroccando Wi-Fi rimane però deluso, perché questo è un Cavalli cafè che fa il caffè, è un fondale per farsi guardare dal vero e su Instagram (anche se fuori ci sono pure dei temerari che ticchettano sui loro Mac sotto i gazebo, inalando polveri sottili).
Il nuovo Apple store in piazza Liberty a Milano (foto LaPresse)
Si prosegue allora verso l’altro nuovo foro milanese, l’Apple store di piazza Liberty, e qui invece siamo nel reciproco, un luogo tutto scavato sotto, sotto un vecchio parcheggio fetido in una piazzetta peraltro stupenda, tra due consolati scicchissimi – Austria, nel palazzo ex teatro Trianon, costruito negli anni Dieci, poi bombardato, demolito, ricostruito in un elegante anni Cinquanta da Giovanni Muzio inglobando resti delle facciate liberty, da cui il nome della piazza, e risultato tipo Downtown Los Angeles. Ad angolo, consolato d’Inghilterra, nel palazzo Ina tutto a piastrelline del Giò Ponti più colorista (“per le città fumose con vie strette, facciate lucenti illuminate dal cielo”, diceva il maestro pratico milanese, la piastrellina è lavabile, rispecchia il cielo non azzurrissimo). Forse gli sarebbe piaciuto questo negozio tutto “sotto”, bianco e alluminio come gli altri ma con tocchi architettonici “local”, forse omaggi al genius loci pontiano, le scale con feritoie che illuminano l’atrio, i dettagli metallici delle balaustre, mentre incongrue come in tutti gli altri store appaiono le fioriere con seduta in vera pelle impunturata tipo Lancia Thema 8:32 anni Novanta.
Quanti commerci, nella piazza, però (sopra c’era un tempo un negozio proprio Ferrari): la Galleria de Cristoforis ospita il cinema Apollo d’essai chiuso per far spazio all’Apple store; un “Michele campione italiano di acconciatura maschile”, con relative coppe, e “Marinucci moda italiana”, tra i tanti brand globali nuovi.
Dieci metri sotto, per sfuggire alla caldazza, nelle arie condizionate Apple, fervono l’otium e il negotium. Ci vorrebbe il Gadda dell’incendio di Via Keplero per dar conto dell’eccitazione di questa milanesità di fine estate. Si fanno dimostrazioni, una commessa-animatrice microfonata intrattiene un banco di milf sulle possibilità delle foto panoramiche con l’iPhone. “Ciao, abbiamo la stessa cover!”, dice a una sciura. “Se vi mettete a coppie è anche un modo di fare belle amicizie!”. Un’altra commessa illustra le potenzialità di uno spazzolino Colgate da collegare alla app, vi dirà superficie dentaria pulita e altre info. Un gruppo di ragazzi prende il fresco sotto i ficus altissimi, verdissimi, dieci metri sotto terra (le previsioni dicono che nel 2100 la pianura padana sarà calda come il Pakistan).