Metronomo urbano
Tra Roma e Beirut Andrew Iacobucci e il sound dell’architettura
La città è un grande spartito, su cui architetti e geometri e urbanisti spalmano edifici col metodo più semplice, la ripetizione regolare degli stessi due elementi (pieno-vuoto), un ritmo che punta all’ideale e alla simmetria ma che naturalmente sfugge di mano in continuazione. Il lavoro del millennial angloromano Andrew Iacobucci (architetto, viaggiatore indefesso) esposto a Beirut in questi giorni nella galleria Cheriff Tabet scansiona la città in cerca degli intervalli tra le partizioni banali-regolari e le pause-canyons di riflessione. La mostra si chiama “Minor third”, dove la terza minore, lo sanno i musicologi, è un intervallo breve tra due note. Due note che distano fra loro una terza minore, suonate insieme, hanno una consonanza imperfetta: la terza minore di Iacobucci pare dunque il punto di rottura della città, dove l’equilibrio binario si perde e parte il cortocircuito e il terzo incomodo e la città fa come le pare, sfuggendo ai suoi progettisti. Collage, pittura su carta, rullaggi di segni stradali, insieme a metronomi che scandiscono il tempo dell’ordine e del caos, sono la registrazione e sbobinatura del sound cittadino, tipo clavicembalo ben temperato del casino. Si sente l’influenza di Steve Reich; e da Roma a Beirut, la musica sale, in un registro dei più compositi, tra edifici qui modernissimi ed eleganti, “non finito” libanese sparacchiato, spunzoni di tondini che saltan fuori dal cemento come nelle Calabrie più esoteriche; grattacieli ineccepibili per capitali misteriosi, e rimasugli di rare architetture moresche-liberty scampate alle guerre infinite. Col sottofondo rap o forse trap di una corrente che va e viene in un suo balletto molto ritmato, scandito da infiniti suoni di clacson.