Il teatro all'aperto della Fiera di Tripoli (foto LaPresse)

Disneyland Niemeyer

Michele Masneri

A Tripoli, nord del Libano, l’expo disegnato dall’archistar brasiliana negli anni Sessanta e mai inaugurato, oggi magnifico relitto per appassionati

I posti abbandonati vanno molto di moda, con trasmissioni e guide ed esposizioni, ma la nicchia di quelli proprio mai inaugurati dev’essere ancora esclusivissima. Così basta uscire da Beirut, in direzione nord, possibilmente con pulmini di linea polverosi per vivere l’esperienza completa, per arrivare a Tripoli, la Tripoli libanese, cinquecentomila abitanti, molto sunnita e già capitalina dei Fratelli Musulmani gradita pure ad Al-Qaida (altro che la liberal e goduriosa e cristiano-maronita Beirut, a soli ottanta chilometri).

 

Però qui negli anni Sessanta si erano messi in testa una botta di modernità, e chiamarono la massima archistar globale per edificare un ciclopico expo. Oscar Niemeyer, reduce dai successi di Brasilia, fu chiamato nel 1962 a disegnare una specie di Fiera di Milano del Medioriente. Sessantaquattromila metriquadri di superficie, su un’area di un milione, il progetto iniziale comprendeva non solo le strutture fieristiche ma anche abitazioni, chiese, sinagoghe, cinema e teatri, tutto nello squisito stile alla James Bond di quegli anni.

 

 

Un'immagine dell'Expo di Tripoli disegnato da Niemeyer (foto LaPresse)

 

Secondo la leggenda, Niemeyer arrivò in Libano nel 1962 e nonostante odiasse volare fu costretto a perlustrare il Paese in elicottero in cerca di una grande area per edificare un polo di modernismo egotico- geopolitico adatto all’allora presidente Fouad Chehab. Dopo pochi minuti, già esausto, individuò una grande area vicino al mare, all’epoca occupata da aranceti.

Ma se Brasilia fu fatta in quattro anni, in Libano le cose andarono un po’ più per le lunghe, tra espropri e litigiosità; si era quasi pronti quando nel 1975 scoppiò la guerra civile e il complesso, prima ancora d’essere inaugurato, fu subito abbandonato. E poi dopo occupato dalle forze siriane che – va detto – l’hanno tenuto molto bene. Il centro colossale, con la poesia del brutalismo che si sgretola, i mille sedili candidi di un teatro all’aperto tipo quello di Libera all’Eur, una chiesetta piramidale che sembra uno stampo di budino, e torrioni metafisici, è ancora lì, fortunatamente mai restaurato da qualche geometra locale, e si consuma lentamente col mare e il vento. Certo a volte ne casca qualche pezzo, le società civili locali protestano, l’Unesco sta valutando se catalogarlo tra la pizza e Matera. Però i prati sono ben curati, e si gira liberi tra l’enorme area congressi (un’unica stecca lunga 700 metri, con tagli immaginifici tipo occhi di Man Ray sul tetto), il fungo-eliporto, e le antiche biglietterie, gustando dettagli e perfezionismi, marmi e pulsanti. 

 

La natura ci si è messa di mezzo: i laghetti che circondano i portici tipo Mondadori a Segrate sono secchi, e ci si può saltar dentro (forse non esiste al mondo un parco divertimenti architettonico così, tra Disneyland e un’openhouse); mentre la grande cupola si è riempita d’acqua ed è diventata una fantasmagorica piscina con effetti-eco sorprendenti (e dentro, scritte spray sui muri non di amori volgari tipo “Genny troia”, bensì “Niemeyer forever”). Anche i locali, sunniti o maroniti, consapevoli o meno dello standing del luogo, ci vengono a fare jogging nelle loro tute di sportivi riluttanti, o le foto dei matrimoni (ecco coppie con una lei molto imbacuccata e un lui con alta pettinatura). Bambini giocosi forse già radicalizzati sfrecciano sotto gli alberi d’arance rimasti (arance amare, del tipo con molti semi).

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