Design italiano per tutti
Non solo icone. Fare un museo nell’epoca del populismo
Volutamente minimal, quasi scarno, con oggetti che parlano da soli su fondale azzurrino da Porta a Porta. E’ già gremito per la fondamentale settimana del Salone del mobile milanese: le folle assiepano questo nuovo Museo del design italiano, appena inaugurato in pompa magna dal premier Conte, nel mezzo della Triennale boeriana. Il museo, permanente ma provvisorio (sarà allargato) ha un inizio programmatico con una macchina da cucire di Giò Ponti, la Visetta del 1949, e si chiude con una poltrona da ufficio un po’ fantozziana di Emilio Ambasz e Giancarlo Peretti.
Certo, in mezzo ci sono gli oggetti celebri anzi – per usare l’aggettivo obbligatorio dell’Ufficio Stampa Collettivo - iconici: la poltrona Sacco, le Bambole di Bellini, la Proust di Mendini, la Arco della Flos, tutti i radicali coi loro Quaderna. Però questo museo del design italiano pare più che un beauty contest anche e soprattutto una celebrazione del design anonimo o non-mainstream. Design popolare (populista?). Una riscoperta di autori minori e oggetti umili: la macchina da cucire, appunto, oggetto uncool di Ponti; e poi lampade e sedie di Vittoriano Viganò e Umberto Riva; un portabagagli per auto di Roberto Menghi, la poltrona P40 di Osvaldo Bersani; oggetti che tanti hanno avuto in casa, considerandoli anonimi, e ora finalmente gridano il loro nome: la “libreria Congresso unilaterale”, la cucina a gas della Rex; fratelli minori di pezzi celebri, uno accanto all’altro: la poltroncina Universale di Joe Colombo e la sua sorellina modello 4875 di Carlo Bartoli; la penna a sfera Thesi di Zanuso e il Tratto pen. Le serrature che tutti abbiamo, di Meroni, e lo scopino da cesso di Mukio Asuike.
Il museo pare insomma molto democratico, uno vale uno. Castiglioniano, anche (paradossalmente più della mostra su Castiglioni che qui si fece l’anno scorso); dunque ritorno alle origini e al genius loci, d’altra parte la storia del design è legata in maniera indissolubile a quella del “Cici”, Achille Castiglioni che aveva studio qui dietro. La decima edizione della Triennale, del 1954, vide la Rassegna internazionale dell’Industrial Design curata e messa in scena proprio da Achille e dal fratello Pier Giacomo: fu la prima mostra a occuparsi della progettazione per l’industria nei termini di “industrial design” (però qui, del santone dei designer milanesi ci sono forse snobisticamente le opere più celebrate, le Arco e le Luminator, e non le creazioni umili a cui teneva di più, come gli interruttori della luce).
E poi ci sono le vocine dai telefoni, quelle che ha sentito anche Conte, piccole interviste che si possono sentire in apparecchi naturalmente vintage, che spiegano nelle parole originali dei designer le opere in questione, omaggio telefonico a un grande milanese, Vico Magistretti: “A me piace il concept design, quello che è talmente chiaro che puoi anche non disegnarlo. Molti dei miei progetti li ho trasmessi al telefono”, dice la citazione d’epoca. Una telefonata allunga la vita e accorcia lo spiegone, come già nella mostra qui in Triennale sugli archivi della Fiera di Milano; risolve l’allestimento, pure, che risulta così invisibile mettendo in piena luce i “pezzi” e non impalla neanche chi si vuole selfare come il premier (e come tutti).
Fruizione instagrammatica veloce, dunque, fast lane: oppure, per chi vuole approfondire, tanti materiali per intenditori, cataloghi e réclame d’epoca deliziose, e feticci (orologi e calendari di Gino Valle ed Enzo Mari, pezzi di segnaletica di metropolitana milanese di Bob Noorda, e vari modelli delle Divisumma di Bellini con packaging originali – e visitatori americani che forse han fatto confusione tra fashion e design week esclamano estasiati degli “ooohhh, it looks like an iPhone”, really?).