Gianni De Michelis (foto LaPresse)

Gianni De Michelis e Venezia

Michele Masneri

Nei giorni della Biennale la città ricorda il Doge. Il carnevale e quel progetto per un Expo veneziano. E naturalmente i balli

Nella Venezia della Biennale, mentre la transumanza dell’arte sciama da uno spritz a una performance, la notizia della morte di Gianni De Michelis arriva differita, attutita, tra i più giovani e i più artistici; ma tra le calli e tra i più arzilli arriva invece forte la nostalgia per il Doge. Al ristorante al Colombo, dalle parti di campo Manin, un gruppo di signori elabora il lutto. “Ordinava spesso il nostro risotto di Go, un pesce povero di laguna”, dice il cavalier Domenico Stanziani, oste autorevole.

  

Non era un mangione, però De Michelis, nume tutelare veneziano, che a Venezia, anche se lontano, aveva sempre tenuto un piede e un orecchio. Qui era nata la sua carriera politica, racconta il fratello Marco, storico dell’architettura alla Bocconi. “Era stato assessore all’urbanistica, e aveva sempre sognato di fare il sindaco, senza riuscirci”. “A livello nazionale prendeva 65 mila voti, qui invece non si sa come non sfondava”. La nemesi. “Ah poter presentarsi al mondo come sindaco di Venezia”, vagheggiava. “Assaggiava, piluccava, ma a dispetto della mole, non era un gran mangiatore”; dice al Foglio Arrigo Cipriani, dell’Harry’s Bar. “Troppo intelligente, dava fastidio, per questo l’han fatto fuori”. Cipriani ricorda il carnevale del 1981, quando a Venezia cominciarono a fare le feste nei palazzi, invece che nelle calli, e in segno di protesta Cipriani recapitò al De Michelis allora assessore una corona di fiori mortuaria, di quelle che si mandano al cimitero, perché il carnevale privatizzato non gli piaceva. “Lui il giorno dopo venne al ristorante, subito, a parlarmi, mentre altri avrebbero tolto il saluto”. Nei palazzi oltre a mascherarsi si danzava. “Curioso del ballo più che delle discoteche in sé, imparò tardi”, dice Claudio Nobbio, decano veneziano dei direttori di grand hotel. Dirigeva anche il Sofitel di villa Borghese a Roma dove De Michelis faceva le riunioni (dormendo però al Plaza). “Ha imparato solo a 40 anni, scoprì il ballo grazie a una signora proprietaria di una famosa boutique in Campo Santo Stefano, che negli anni ’80 era d’avanguardia, e lo consigliava sul look. Frequentata anche da Elio Fiorucci per via delle giacche stravaganti e della linea gender fluid (i manichini erano austeri dogi barbuti e incappucciati sopra, con gambe affusolate e tacchi a spillo, sotto)”.

 

“De Michelis si stupì che Venezia non avesse una grande sala da ballo, e si adoperò subito per ricavarne una in piazza San Marco nell’ala napoleonica del Museo Correr. Non una discoteca, ma un elegante luogo in cui si fecero feste memorabili, tra cui una in costume egizio. Faceva poi ogni tanto un salto al minuscolo Suq, unica discoteca veneziana ancor oggi; vicino al ponte dell’Accademia. Poi ribattezzata Piccolo Mondo”. Il Piccolo mondo di De Michelis doveva comprendere però una grande Venezia. “Si era molto speso per l’Expo del 2000” dice ancora Cipriani, cioè la mega esposizione universale, quella che poi farà Milano nel 2015 e che rilancerà il capoluogo lombardo. “All’epoca fu molto boicottato. Anche noi non ci credevamo, ci sembrava un’invasione”. Il Psi inseguiva progetti di competizione architettonica: De Michelis si ingarellava. Mitterrand aveva fatto a Parigi la piramide del Louvre. Così “fulcro del progetto per l’Expo era un museo d’arte contemporanea disegnato da I.M. Pei, quello del Louvre, che avrebbe dovuto sorgere all’Arsenale, all’epoca abbandonato”, dice il fratello Marco. “E il museo avrebbe dovuto ospitare la collezione Panza”. Non se ne fece niente, insieme al progetto per una metropolitana translagunare e ad altri piani di grandezza e modernità. Fu colpa anche di un concerto, lo scarognato concerto dei Pink Floyd che nel 1989 fece scoprire a Venezia lo spavento delle masse, lasciò la città coperta di immondizia, e inabissò per sempre i sogni di modernità della laguna e del suo Doge.

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