Lucio Fontana

Buchi tra le buche

Michele Masneri

Alla Galleria Borghese di Roma, tra i classici Bernini, Caravaggio e Canova, arrivano i Concetti spaziali di Lucio Fontana

“Io buco e non c’è bisogno di dipingere perché è lì che passa l’infinito. Ciò che conta davvero non è l’estetica, ma l’aver bucato”. Davvero impossibile fare mostre più site-specific di questa, alla Galleria Borghese, tra le buche di via Pinciana, arteria delle più perforate del centro storico romano. Eppure “Lucio Fontana terra e oro”, che ha appena aperto, mette insieme con successo e con la collaudata formula “quell’antico-moderno che è il segreto de Roma”, come diceva Franca Valeri in “Parigi o cara”. Tanti lavori del pittore-scultore appunto conosciuto per buchi e tagli, tra i quadri e le opere più classiche e storiche (Tiziano, Amor sacro e amor profano, la Paolina Borghese, l’Apollo e Dafne, tanti Caravaggio, e Bronzino) nel museo forse più stupendo al mondo, in grado di provocare sindromi e coccoloni stendhaliani anche tra i più cinici.

 

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In una perfetta similitudine o metafora romana, le perforazioni brutaliste di Fontana, piazzate “in dialogo” e “a contrasto” si parlano con le divinità rinascimental-manieriste-barocche: un Concetto spaziale dorato in resina del 1960 della collezione Nahmad accanto alla Leda del Ghirlandaio; buchi nell’ottone accanto alla Venere di Cranach, buchi accanto al San Giovanni Battista twink del Bronzino. Si sa che Fontana cercava l’infinito e forse Dio oltre la tela e la materia, all’inseguimento di un suo 3D mistico, togliendo tutta la sovrastruttura del “quadro” per lasciare la materia prima, come fanno peraltro i cuochi stellati (mentre Paolo V Borghese chissà se cercava Dio pure lui, ha una faccia da furbetto nel ritratto di Bernini). Ma ciò causa ancora sturbi, e così per tranquillizzare le masse che trattasi di vero artista e non di un perforatore astuto, e per non offendere i Bernini e Canova che si son smazzati defatiganti monoblocchi di Carrara, ecco in mostra anche una vera scultura, il Pescatore o Fiocinatore, un bel giovanottino scolpito negli anni giovanili quando Fontana, prima di diventare scicchissimo e astratto perforatore, era ancora un seguace di Adolfo Wildt (che rischio si è corso, in quei “nostri orribili anni Trenta” (cit.).

 

All’inaugurazione, oltre alle solite transumanze da Appia Antica Country Club, anche Germano Celant sia in versione critico (ha contribuito alla mostra, suo un saggio in catalogo) e sia ambasciatore pradesco (è della collezione Prada uno dei quadri più belli e inusuali, un buco a forma di cuore in un quadrato sberluccicante di una strana materia che ricorda tanto la schiuma d’acciaio con cui è eretta la stessa fondazione Prada a Milano). E poi il leggendario collezionista-mercante David Nahmad, che ha qui prestato tanti pezzi, e drappelli artistici sbalzati tra la Biennale di Venezia e l’imminente Art Basel, tutti abbastanza turbati e tonificati dalla recente vendita roboante del famigerato coniglio di Jeff Koons. Sembravano scrutare questi buchi e tagli con aria interrogativa (sarà mica sottovalutato Fontana? Sarà ora di comprare? O di vendere? Non si capisce più niente). Poi buffet sotto i cellofan, e il diluvio.

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