Com'è bella la città
Perché l'elogio di Quaroni alla vita urbana è più attuale che mai
In tempi di contrapposizione fra città e campagna gioverebbe la lettura di un libretto di Ludovico Quaroni, “I volti delle città”, Edizioni di Comunità. Sono due saggi del 1954 in cui il decano romano cui è stata intitolata la facoltà di architettura della Sapienza decanta le virtù della città e la sua attrattività inesorabile nonostante le nostalgie della vita campestre, idealizzata nelle sue forme esteriori ma rimossa nella durezza della sua condizione lavorativa e di controllo sociale: “la città ci dà la possibilità di un ambiente non imposto, ma liberamente scelto da noi, e ci dà la possibilità d’una vita veramente privata e insieme d’una più intensa partecipazione alla vita pubblica; ci può offrire la possibilità d’un lavoro sempre migliore, in relazione alle nostre capacità e al loro sviluppo nel tempo, le possibilità della massima integrazione della nostra vita”.
Eccolo qua il segreto della migrazione di massa dalle campagne che ha portato già da tempo la maggioranza della popolazione mondiale a concentrarsi sempre di più nelle città, in Cina, in India, in Sudamerica. Nell’Italia del boom, quando Quaroni scriveva, era invece in atto un tentativo riformista come quello olivettiano di contenimento del fenomeno: l’attrezzatissima company town di Ivrea, ma anche il borgo de La Martella (1951-54) poco fuori Matera destinato ai contadini e agli sfollati dei Sassi lo dimostrano e il connubio fra Quaroni e Olivetti attraverso l’Istituto Nazionale di Urbanistica (con la complicità di Bruno Zevi) resta una pagina delle più nobili nella storia moderna italiana. Non è un caso che la Fondazione Adriano Olivetti gestisca anche l’Archivio Quaroni, ma è un peccato che questo libretto non sia corredato da una nota esplicativa e attualizzante. In questo modo resta una mera operazione d’archivio e si perdono anche altri aspetti cruciali come l’enfasi verso la comunione fra uomo e città officiata dal monumento che “unisce agli uomini morti l’uomo vivo”, in cui si legge tutta l’influenza esercitata da Quaroni sui “fatti urbani” del giovane Aldo Rossi che proprio da lui trarrà il titolo del suo libro più celebre, “L’architettura della città” (1966).