Cucina Like, Mondo Convenienza

Saga del mobile povero, dalla svolta della Bolognina all'Ikea

Michele Masneri

Prima di Mercatone Uno c’era Aiazzone, poi il boom di Mondo Convenienza. Storia romantica e crepuscolare dell'arredo sovranista 

Niente saloni del Mobile o Compassi d’oro, per loro. La saga del Mercatone Uno, il colorato mobilificio andato fallito nei giorni scorsi con scorni elettorali (Di Maio ora se ne occupa, è aperto un tavolo, sarà di noce nazionale), apre uno squarcio su tutta una saga mobiliera minore, romantica e crepuscolare, italiana. Accanto alle vicende araldiche degli interni in pelle del boom, della Flos coi Castiglioni e delle Artemidi e delle Poltrone Frau, c’è stato in Italia tutto un mondo sommerso di tinelli “subalterni”, per dirla alla Gad Lerner, mobili in massello massiccio e guardaroba in noce nazionale che non osavano pronunciare il proprio nome.

 

“Prima i salotti italiani”, era la costituzione materiale dell’arredo italiano medio. C’era un tempo infatti in cui il cibo doveva venire da molto lontano – faceva fino - e l’arredo invece essere a chilometro zero; gli anni dell’insalata di scampi e del boom dei kiwi e del mapo, metà mandarino metà pompelmo (e però la cucina “a isola” doveva essere del mobilificio di Cantù, fatta dal produttore al consumatore). Oggi che si richiede invece la filiera cortissima per la minestrina e l’ovino bio, il mobile dev’essere almeno svedese o newyorchese. L’arredo sovranista si è sfaldato.

 

Ecco dunque questo Mercatone Uno, fallito ufficialmente nei giorni scorsi nonostante i tentativi di risanamento dell’imprenditore Valdero Rigoni, “ceo” di una “Shernon Holding”, che qualche mese fa ha acquisito l’azienda. Nelle concitate ore del salvataggio, la Shernon Holding faceva sapere che avrebbe proceduto a “un refitting totale di tutti i 55 punti vendita che diventeranno sempre più experience store dove trovare idee, ispirazione e spazi di socialità (dai masterclass di cucina ai corsi per il fai-da-te ai corner per le famiglie)”, si legge nei comunicati. La storia del mobile povero racconta molto sui costumi. Un tempo era: “sarete ricevuti a pranzo e a cena dai nostri architetti”, uno dei tormentoni fortunati del maestro del mobile povero, Aiazzone. Oggi, invece di mangiare, ti costringono a cucinare (una experience, una masterclass anzi un, maschile).

 

Ma tra lessico da ufficio stampa della moda e il ponte “da amare, da vivere”, di Toninelli, è la conferma che la storia del mobile povero è una storia anche di media: fin dall’inizio tutti i mobilieri investivano infatti tantissimo nella tv, almeno nella radio – in provincia di Brescia andava forte la Radio Mobilificio di Cantù, con ballabili e melodici, che però non stava a Cantù ma a Desenzano del Garda, regno del Dogui (del resto c’era un mobilificio di Cantù anche a Potenza, perché “Cantù” era come Colonnata per il lardo e Cetara per le alici - ma molti anni dopo). Aiazzone era poi un Berlusconi del massello massiccio: muore a soli 39 anni, prima di realizzare il suo sogno, creare una rete televisiva nazionale acquistando piccole emittenti locali per trasmettere 24 ore su 24 le offerte di quella prima catena nazionale che contava 5 sedi, 170 dipendenti, 3 miliardi spesi in pubblicità ogni anno.

 

Morto troppo presto. Intanto nel 1989 crollava il muro e Ikea apriva il suo primo negozio d’Italia, e cambiò tutto (nel 1968, altro spartiacque storico, mentre gli studenti di architettura italiani scioperavano, l’Ikea già aveva abbandonato il legno per passare al truciolato). Forse la fine delle sinistre parte già da lì, dal 1989, quando Occhetto fece la svolta della Bolognina e il truciolato diventò aspirazionale, il temibile buongusto scandinavo-socialdemocratico dilagò interclassista e corruppe le masse: il proletariato anche lumpen cominciò a desiderare allora le sedie simil Alvar Aalto e non la poltrona in pelle del megadirettore.Il mobilio sovranista andò fatalmente in crisi. A farne le spese, soprattutto il campione di quella razza, Aiazzone. Great furniture novel, finita in una specie di opera-mondo con processi, tragedie, incidenti aerei.

 

Perfino un esproprio proletario – quando nel 2011 duecento clienti inferociti presero d’assalto il negozio di Pognano (Bg), portandosi via cucine, letti, accessori, finestre. Sui truffati di Aiazzone non furono fatte commissioni d’inchiesta – ma il segretario di Rifondazione comunista di allora, Paolo Ferrero, giustificò la presa dello show-room (“Un atto di ripristino della giustizia e non un furto''). Trent’anni prima, una maratona funebre su Rete A celebrava già il fondatore Giorgio Aiazzone caduto col suo aereo come John John Kennedy. L’eulogia fu condotta naturalmente da Guido Angeli, quello di “provare per credere” - la saga del mobile povero è anche l’avventura di claim desolanti, di jingle martellanti. Con una tragica brand extension, nel 1986 Angeli pubblicò il 45 giri “Provare per credere”, e poi fece pure un film – indovina un po’ – intitolato “Provare per credere” accanto a Tinì Cansino, stella del Drive In, e Pamela Prati (già).

 

Ai tempi d’oro, il mobilificio Aiazzone recava una lunga insegna a forma di biscotto Plasmon, voluto dal fondatore per renderlo riconoscibile dalle mamme. E “sarete ricevuti a pranzo e a cena dai nostri architetti”, era appunto l’invito alimentare ai tempi d’oro – 190 dipendenti, 30 miliardi di fatturato. Oggi la sede è abbandonata. Ma già nei Novanta nessuno ti invitava più a pranzo o cena, si mangiava tutti le polpette dell’Ikea. Oppure si scoprivano le eccellenze locali; la saga del mobile povero è come tutte quelle gloriose italiane a base regionale. Esplodeva allora il distretto pugliese di Natuzzi (“Divani&Divani”), che dilaga parallelamente alla scoperta del Salento dei turisti e dei registi italiani (possibilmente corali) con la luce calda di Lecce, Edoardo Winspeare, la pizzica e la taranta. Dopo un po’ però tutto si ridimensionava, il distretto si restringeva, la dinastia si milanesizzava (l’erede Pasquale Natuzzi junior ha anche una presunta love story con Belèn). La saga del mobile povero è anche una delle poche, pochissime, in cui Roma e il Lazio sono, come si dice, protagonisti. Tra i masselli nazionali e i truciolati abbandonati, tra i “cinque anni senza cambiali”, poi diventati “trentasei mesi senza interessi”, vicino Roma cresceva Mondo Convenienza – jingle; “la nostra forza è il prezzo”.

 

E in effetti i prezzi sono portentosi: il soggiorno “Giulia”, color “ghisa, effetto quercia naturale, composizione essenziale e pratica grazie ai suoi pensili e alle mensole porta libri”, costa 327 euro. I divani partono da 148. Mondo Convenienza fu inventato da Giovan Battista Carosi, ex ambulante che comincia con un negozio che si chiama “La stalla” a Civitavecchia, e oggi guida un gruppo da 1,1 miliardi di fatturato e il 10 per cento del settore (appena dopo l’Ikea). Mentre Roma crollava in tutte le classifiche e si separava di fatto dall’Italia produttiva, Mondo Convenienza cresceva. Anche con un’estetica peculiare, tecnologica e newyorchese-fredda, molto anni Novanta, mentre l’Ikea e il gusto globale-Airbnb predilige calde atmosfere boreali. Il Mondo Convenienza arriva nelle case grazie a cataloghi minuti ma spessissimi, piccoli meridiani dai colori ipnotici con foto sovresposte di tinelli che si chiamano Max, Dahlia, Elios, Tokyo, Paddy, Gea, Sani, Swing. Un’estetica efficiente, glaciale, forse a compensazione di complessi locali-identitari, o forse legata all’ultima epoca in cui a Roma s’è fatta architettura e manutenzione, prima delle voragini e della wilderness: gli anni Novanta, appunto.

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