Sax and the city: Fausto Papetti a vent'anni dalla morte

Michele Masneri

Le origini, i ballabili, e poi l’idea delle cinquanta collezioni con le ragazze discinte. Un format italiano

Era di Viggiù, come i pompieri, e inventò uno dei format decisivi della musica, e della virilità, italiana.

 

Fausto Papetti era nato nel 1923 e morì a Sanremo nel 1999, dopo trenta milioni di copie vendute dei suoi album da sexy ascensore che portavano in copertina delle signorine, a figura intera o a tocchi, quasi sempre discinte. Negli anni Settanta era difficile non imbattersi sulle autostrade italiane in campioni di una virilità molto local, Alfasud magari e Giuliette da cui provenivano motivi celeberrimi riprodotti al sassofono: era il suono dell’homo papettianus, che acquistava in massa dischi e cassette un po’ per il medium e un po’ per il messaggio. Il disco di Papetti era un geniale format a metà tra il calendario di Max e la compilation del Festivalbar. In realtà aveva esordito, Papetti, come componente di un gruppo, i “Menestrelli del Jazz”, ma la sua fortuna arrivò con le sue “Collezioni”. In pratica prendeva i successi commerciali dell’anno, sempre dodici, come un calendario, appunto, toglieva le inutili parole, e li eseguiva in strumentale, col sax protagonista. Tullio de Piscopo, che ha fatto il batterista per 20 “collezioni” di Papetti, dal 1972 al 1982 – sì, ne uscivano anche due all’anno – raccontò che “la sua fortuna fu legata a un capriccio del direttore d’orchestra della Durium, etichetta discografica per la quale militava, che non volle registrare il lato B di un 45 giri per via dell’arrangiamento, a sua opinione insoddisfacente. Il produttore, ansioso di concludere, decise perciò di fare a meno dell’orchestra e convocò all’istante solo la versione ritmica composta da quattro elementi: basso, chitarra, batteria e sax. Quest’ultimo era suonato da Papetti che, durante le prove, improvvisò una personale elaborazione della melodia, sottolineata con perfetto intuito dalla sezione ritmica” racconta De Piscopo nella sua autobiografia intitolata “Tempo”.

 

“Fu così che Papetti lanciò una moda, anzi una febbre, per lo strumentale, e incise quarant’anni di raccolte di brani riadattati al suo sassofono solista”. Era in arrivo anche il tormentone di “Je t’aime moi non plus”. Così arrivò anche l’intuizione delle donnine, solo alla decima raccolta, nel 1969, con la reinterpretazione della canzone di Serge Gainsbourg che irrompe nell’estate italiana coi sospiri e gemiti; in Italia si avviava anche il decennio che liberalizza i costumi e i giornaletti. Apre la stagione delle “orgasmo song” italiane, come le chiama Fabio Casagrande Napolin nell’omonimo saggio.

 

“Papetti era un misto di kitsch, di virtuosismo manierista, doppi sensi legati alle copertine patinate con culi da manuale, ai ballabili, al mondo della balera”, dice al Foglio Mario Luzzatto Fegiz, “e poi il sax non è casuale, il sax serve sempre a sublimare le emozioni che non si riescono a dire con le parole. Questo lo insegna Paolo Conte. Quando la parola gli va stretta lui parte con la sua bella sezione di sei ottoni e manda tutti in sollucchero” (poi ci fu Jannacci col suo Saxofone bell’animalone).

 

Ma intanto le raccolte papettiane - riuscì a farne 50, la cinquantesima poco prima di morire - trionfavano, diventavano geniali “collectibles” non solo grazie alle copertine pruriginose ma anche alla numerazione romana e progressiva (si chiamavano "XIII raccolta, XIV raccolta", e così via). L’utilizzo principale era automobilistico e il marketplace l’autogrill, in quelle cataste di dischi che ancor oggi seguono un gusto tutto loro, polveroso, ingenuo, romantico, tra il culatello e il limoncello: e i fazzoletti umidificanti.

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