Non sparate sul board
Nel mondo dell’arte va molto di moda stanare i legami delle personalità museali con l’industria bellica. Il caso del Whitney Museum di New York e non solo
Mentre il metoo pare un po’ arenato dopo i trionfi hollywoodiani e la ricerca di nuovi campi d’azione (bene l’architettura, coi sospetti su Richard Meyer, ok la cucina con la star dei fornelli Mario Batali che ha dovuto vendere i suoi ristoranti), adesso pare partito però tutto un altro filone che non distingue più maschi e femmine.
Nel mondo dell’arte va molto di moda stanare i legami delle personalità museali con l’industria bellica. Primo è stato il Whitney Museum di New York, dove al vicepresidente del board Warren Kanders è stato richiesto di dimettersi. Tutto a un tratto ci si è accorti infatti che la fortuna che gentilmente il magnate riversava sul museo deriva dalle fruttuose aziende Safariland e Sierra Bullet, che producono prestigiosi gas lacrimogeni e proiettili utilizzati in particolare nel conflitto israeliano-palestinese. Un altro vicepresidente del Whitney è Nancy Carrington Crown, la cui famiglia è azionista di General Dynamics, altro grande produttore di armi. Pronte le dimissioni, e il gruppo di architetti Forensic ha già girato un documentario in proposito. Ma intanto il filone “finché c’è guerra c’è speranza” dilaga proprio nel campo dell’architettura: martedì si è dimessa Yana Peel, ceo della Serpentine Gallery, la fondamentale galleria londinese. È accusata dal Guardian di aver investito in una società militare israeliana, Nso Group, che produce software-spia che sarebbero stati usati anche da regimi arabi per controllare e reprimere i propri dissidenti. Ironicamente Peel, nata Mikrin a San Pietroburgo nel 1974, è figlia proprio di dissidenti dell'Urss emigrati poi in Canada, e a nulla vale il suo curriculum, fatto di consulenze e lavori per i massimi musei britannici, e di una lunga e consistente attività filantropica svolta autonomamente e insieme al marito businessman Stephen (l’investitore nei software spionistico in questione). Non si sa come andrà a finire, e quanto essere fiscali, soprattutto: al Whitney praticamente tutti i donatori, essendo investitori in trust e fondi, hanno in mano azioni di qualche grande gruppo bombarolo: Thomas Tuft, un altro vicepresidente, guida la banca d’affari Lazard, che investe in una serie di produttori di armi; Julie Ostrover, mecenatessa del museo, è vedova di un potente armigero. Insomma, la questione potrebbe raffreddarsi presto, per passare ad altri filoni meno spinosi.