Architetti a Bloomsbury
L’AA è stata la scuola più cool degli anni Settanta: mentre ovunque in Europa le facoltà di Architettura scommettevano per lo più su eskimo e okkupazioni, a Londra riorganizzavano la didattica con un progetto chiaro: nessun metodo imposto
Espletati adeguatamente i festeggiamenti per la scuola d’architettura più importante del primo Novecento (ciao, Bauhaus), tocca ora passare a qualcosa di più recente. La Architectural Association è ancor oggi accademia mitologica a partire dal logo che ricorda American Apparel e American Airlines mentre quando qualcuno butta lì che ha studiato a “ei-ei” si capisce subito che ha fequentato la Eton degli architetti, la Harvard dei progettisti. Ubicata benissimo, nella settecentesca Bedford Square, nel cuore della Bloomsbury dove ai bei tempi si riunivano Virginia Woolf e John Maynard Keynes, l’AA è stata di certo la scuola più cool degli anni Settanta: mentre ovunque in Europa le facoltà di Architettura scommettevano per lo più su eskimo e okkupazioni ed esami di gruppo stile Valle Giulia, a Londra un corpo docente pur fricchettone e molto poco accademico riorganizzava la didattica con un progetto molto chiaro in mente: nessun metodo imposto. Nessun metodo, ma una strategia chiarissima (siam pur sempre a Londra, non ad Avellino, direbbe Sala). L’artefice di questa impostazione iper-liberal, al contrario delle nostre facoltà smandrappate dove veniva bandito ad esempio lo studio di tutti gli architetti “borghesi”, da riscoprire poi trenta o quarant’anni dopo con sussiego e sorpresa, è stato il canadese Alvin Boyarsky che ha reso la scuola davvero globale, attirando moltissimi cani sciolti come l’americano Charles Jencks che conierà l’architettura postmoderna due anni prima di Lyotard, o il polacco-israeliano Daniel Libeskind che faceva disegni cervellotici avendo abbandonato da poco gli studi musicali, o ancora il greco cresciuto in Sudafrica Elia Zenghelis che farà subito comunella con l’olandese cresciuto in Indonesia Rem Koolhaas, chiamando come disegnatrice nel loro studio una giovanissima studentessa irachena laureata in matematica a Beirut, Zaha Hadid. La saga della AA è oggi raccontata in un nuovo saggio, “Contro il metodo in architettura. Episodi e temi dell’Architectural Association 1968-1982”, di Manfredo di Robilant (Quodlibet), che racconta come alla fine “una scuola senza formula, senza metodo, e senza una visione collettiva” – e senza pippe sociologiche, si aggiunge – si trovò poi pronta più di tutte le altre al riflusso degli anni Ottanta, quelli del thatcherismo e della fine delle grandi commesse di stato che hanno visto la fine dei gruppi e la nascita delle archistar, di cui infatti la AA è diventata vivaio. La scuola ha subito varie evoluzioni fino a oggi, e forse supererà anche la Brexit, rimanendo la più antica accademia indipendente del Regno Unito senza finanziamenti pubblici.