Ben Hur e la balena bianca
Sessant’anni fa il kolossal con Charlton Heston. Il ruolo di Andreotti e della Democrazia cristiana. Gore Vidal sceneggiatore ribelle
Forse esiste già, però che goduria sarebbe un film o libro o doc tutto sulla lavorazione di “Ben Hur” e i suoi derivati, anche raschiando il fondo del barile di quel periodo abusato e leggendario della Hollywood sul Tevere.
Anniversari: era il 1959, e il kolossal veniva girato tra Cinecittà e la fatale Pontina – dove oggi il parco divertimenti “Cinecittà World” ha però sospeso le corse con bighe e veri cavalli nelle archeologie scenografiche usate per quella produzione (per sensibilità verso le bestie). Andando più giù, verso Sabaudia, ed evitando Salvini e i proclami balneari, c’è però la duna cinematografica e il lago di Fogliano, che grazie anche alle palme secolari piantate dai Caetani nell’800 ospitò le scene nautiche del film. Ancor più giù, memorie a Terracina, dove superata la leggendaria fettuccia viveva il famoso Ginetto detto Tarzan, controfigura di Charlton Heston. Calciatore di qualche fortuna, Gino Colabattista a quarant’anni s’era ritirato ma aveva mantenuto spirito e fisico (di qui il nickname). Gestiva lo stabilimento Kursaal, e a un certo punto venne chiamato in tutta fretta dalla capitaneria per disincagliare il modesto motoscafo d’Aldo Moro che lì – talvolta in abito, talvolta in pantaloncini, ma sempre sobriamente, villeggiava e naufragava.
Controintuitivamente, “Ben Hur” incrociò molta Democrazia cristiana. La mega produzione fu fortemente voluta da Giulio Andreotti, cinéphile con un occhio al lato dell’offerta, che inventò il primo tax credit della Repubblica con la eponima legge Andreotti del 1949, imponendo tasse sul doppiaggio straniero e sgravi invece per le pellicole a chilometro zero.
E poi naturalmente Gore Vidal: arrivato a Roma nel 1958 proprio a fronteggiare i buchi di sceneggiatura di quel filmone (e anche perché “le marchette costavano poco”, scrive nelle sue memorie). Abitava un attico gigante a piazza Argentina guardando le rovine e i gatti e scrivendo capolavori ed elaborando un’idea tutta sua del kolossal: istigato forse da Fellini, che stava nell’ufficio accanto sulla Tuscolana scrivendo “la Dolce vita”, “Gorino” mette mano a quello script, che doveva narrare la storia del principe ebreo Giuda Ben-Hur, tradito dal suo vecchio amico d’infanzia, il tribuno romano Messala. Per Vidal “la trama era confusa. Due amici d’infanzia si incontrano ormai adulti. I due arrivano a odiarsi al punto che il primo uccide l’altro in una corsa di bighe. Non c’era spiegazione per tutta questa furia”. “Ecco perché ti abbiamo chiamato”, risponde il regista William Wyler.
Così arriva l’ideona: “Ben-Hur e Messalla da ragazzi erano stati amanti”. Mentre il primo, interpretato da Charlton Heston, era rinsavito, Messalla (Stephen Boyd) era rimasto sotto. “Prima li facciamo amoreggiare, poi quando Ben-Hur rifiuta le avance di Messalla, si scatena l’odio!”. “Gore, questo è Ben-Hur, Cristo! Non possiamo farlo!”, risponde Wyler. Lo fanno ugualmente, ricorrendo al body language e al sottotesto. “Anni e anni di tv supercensurata mi avevano insegnato che si possono fare dei dialoghi in cui dici una cosa, e ne intendi un’altra”, scrive Vidal, che alla fine riesce nel suo intento (però decidono di non avvertire Heston, considerato da Vidal un subumano oltre che cane micidiale, e che aborrirebbe il plot). Heston però nei suoi diari scrive: “Vidal è un uomo molto intelligente, ma la sceneggiatura non è cosa sua”, insomma è meno scemo di quanto pensassero, e con “Ben Hur” prende pure l’Oscar.