foto tratta dalla pagina Facebook WeWork

L'età del coworking

Michele Masneri

Nuovi spazi, nuovi format di collaborazione tra pubblico e privato. Wi-fi veloci oppure no, biblioteche, dibattiti. Le novità dalla Silicon Valley

Mentre si attende con ansia il collocamento in Borsa di WeWork, il colosso del coworking americano che dovrebbe certificare lo stato di salute del settore, la Silicon Valley continua a sfornare modelli e modellini nuovi, se non di lavoro, almeno di posto di lavoro. Che, a parte le grandi conglomerate come Apple e i nuovi falansteri come la torre Salesforce, è fluido e in comune. Con novità dettate dallo spirito dei tempi: c’è appunto WeWork, il re degli spazi di coworking (casermoni riattati e microparcellizzati per giovani imprenditori e freelance, con wi-fi veloce, cereali, sale riunioni e condivisioni di spirito e di idee): ha aperto a New York nel 2010, e oggi ha più di 400 centri, che servono 400.000 clienti) e tutti si chiedono come andrà lo sbarco in Borsa, atteso a breve (per capire se il settore è redditizio o solo affascinante).

 

Più in piccolo, ecco il nuovissimo coffee shop Manny’s sulla Mission – il quartiere ex industriale ora giovanil-lussuoso di San Francisco – che offre consueta scelta di avocado organico ma anche una bibliotechina specializzata in gender issues e femminismi local e biografie di politiche donne, e dalle 6 pm oscura l’Internet e invita a consultarla e parlare di politica come un circolo Pci della Garbatella. Finito il ciclo dei bar col wi-fi, fino a oggi il sacro graal del freelance col suo computer, disposto a pagare qualunque prezzo e qualunque caffè per una connessione veloce, improvvisamente diventa cool trovare quelli sconnessi. E magari “a political bookshop and civic space” come questo, con dibattiti per creare “better informed and more involved citizens”, con personaggi mica male: ieri c’è stato un incontro con Andy Kim, l’unico deputato americano di origini coreane, esperto di lotta alla proliferazione di armi; il 17 ci sarà la social media manager che sta gestendo la campagna elettorale della candidata Elizabeth Warren, Anastasia Golovashkina. Insomma, una volta spento il wi-fi, anche gli avventori potranno in parte essere rieducati (magari sono gli stessi programmatori ventenni che stanno killerando la democrazia con le nuove versioni di Twitter e Facebook e attendono i torpedoni digitalizzati che li scaraventano giù nella valle del Silicio). Lì, a Palo Alto, la tedesca Sap, colosso dei software gestionali, ha aperto ormai da quattro anni, insieme al comune, Hanahaus, uno spazio di coworking che è insieme un caffè e una piazza digitale e virtuale (una piazzetta molto bella, di barocchetto californiano, con fontana centrale), ospitata nel vecchio Varsity Theatre, e caffè Blue Bottle (marchio prestigioso sanfranciscano di quelle miscele verdognole che rimangono impresse). Ci sono conferenze e riunioni tra i palmizi (esperimento replicato anche a Los Angeles): risposta ai concorrenti locali di Salesforce che hanno costruito il grattacielo più alto di San Francisco con tanto di teleferica.

 

La Svizzera ha puntato invece sul porto, piazzando su uno dei Pier di San Francisco un acceleratore-incubatore d’impresa nazionale, un’antenna in Silicon Valley con format abbastanza unico: acceleratore di impresa per chi vuole nascere qui e insieme “ambasciata” per le grandi che vogliono comprarsi startup americane. Ma anche, dentro, convegni e incontri su arte e tecnologia, con la collaborazione delle maggiori università svizzere (e poltroncine Vitra, e macchinette Nespresso). Lo stato paga solo l’affitto della sede, al resto pensano i privati: è un modello che è stato replicato anche in altri avamposti strategici come Brasile, Cina, India.

Di più su questi argomenti: