Il bello di Hollywood
Scotty il prostituto, Valentino, lo Studio 54. E ora anche l’avvocato del diavolo: un nuovo doc di Matt Tyrnauer (alla Festa del cinema)
Se n’è andato domenica scorsa a 96 anni Scott Bowers, decano dei prostituti losangelini, che era stato immortalato nel documentario “Scotty” di Matt Tyrnauer presentato alla Festa del Cinema del 2017 a Roma. Aveva allietato, come si vide nella pregiata pellicola, Rock Hudson, Spencer Tracy, Walt Disney, e tutta l’industria cinematografica dell’epoca (oltre a Gore Vidal), mentre passavano gli anni puritani del maccartismo e si fingevano ménage più istruttivi con mogliettine e villette o villone (ma forniva anche ragazze per dive un po’ lesbiche come Katharine Hepburn, che condivideva il tetto solo formalmente con Spencer Tracy, si apprese).
Scotty era un allegro marchettone che, come in un romanzo capotiano o isherwoodiano, da garzone di una pompa di benzina aveva scoperto le potenzialità di altri servizi con ben altro valore aggiunto, in un’epoca prima dei Tinder e Grindr, e il distributore divenne l’epicentro e l’hub per smistamenti e divertimenti. Tyrnauer fece di lui una star, seppure anziana, dopo una vita di riservatezza eterosessuale (la moglie è morta l’anno scorso) e frugalità disordinata (nel film, stupivano soprattutto le cianfrusaglie accumulate in garage, tipiche degli accumulatori nevrotici). Tyrnauer va avanti da anni in una sua ricognizione molto peculiare del costume soprattutto gay globale: già pezzo grosso di Vanity Fair America, destinato a prenderne la direzione per il post-Graydon Carter, ha ringraziato e ha fondato la sua casa cinematografica, e ora fa praticamente solo documentari, divertendosi di più come mi raccontò qualche anno fa, e guadagnandoci evidentemente di rilevanza.
Ha esordito e svoltato nel 2008 con “Valentino, the last emperor”, che ha inaugurato il filone dei documentari-sugli-stilisti e consacrato nel mainstream il duo Valentino-Giammetti fino ad allora inaccessibili (tutti noi sappiamo le battute a memoria, da “trop de sable” a “troppo abbronzato”, e ricordiamo i carlini in jet privato). Poi ha proseguito appunto con “Scotty”. L’anno scorso in un altro film ha scandagliato un altro grande tema come lo Studio 54 (si apprese che il celebre night vissuto per soli 33 mesi, dal 1977 al 1980, fu chiuso per evasione fiscale e i due soci, Ian Schrager e Steve Rubell, in mancanza di condoni furono condannati a 20 mesi di prigione ciascuno. Schrager, figlio di un gangster associato con Lucky Luciano e con la meglio camorra newyorchese, si è poi rifatto una vita, ha fondato una primaria compagnia di hotel che porta il suo nome, ed è stato graziato definitivamente dal presidente Obama).
Sempre sul filone glamour-giudiziario, in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma arriva anche l’ultimo dei suoi documentari, “Where’s My Roy Cohn?”, dedicato al Cohn scaltro e spietato avvocato e mediatore politico newyorchese, consulente capo del senatore McCarthy e avvocato personale di Trump tra il 1973 e il 1985, poi radiato dall’ordine nel 1986 per condotta immorale e perito poco dopo per Aids. Il titolo è una citazione diretta del Trump non ancora presidente ma anzi giovane playboy e scapestrato imprenditore, che da Cohn sarebbe stato ispirato e istruito come dal più sulfureo istitutore. Pare che Cohn tra le varie malefatte istigasse McCarthy a perseguitare nello specifico funzionari gay dell’Amministrazione; consigliava poi i peggio stratagemmi legali a Trump, e le meglio famiglie mafiose newyorchesi. Sembra insomma un personaggio perfetto per essere odiato (talmente perfetto che su di lui ne è appena uscito un altro, di documentario). Secondo il New York Times, “quando eri in sua presenza era come stare in presenza del Male”: il che, francamente, pare un po’ eccessivo.