Jencks, il dandy dell'architettura
Se n'è andata una delle personalità più note affiliate all'Architectural Association, che amava i giardini come manifestazione autobiografica
Se n’è andato anche Charles Jencks, il dandy della critica di architettura, americano come Tom Wolfe, con cui non a caso ha scritto uno degli oltre trenta libri pubblicati nella sua lunga carriera. Era nato ottant’anni or sono a Baltimora, da una famiglia di musicisti di origini scozzesi. Studiò ad Harvard e poi si trasferì nel Regno Unito per occuparsi di alcune abitazioni di famiglia in Scozia e a Londra. Nella capitale inglese ottenne anche un dottorato nel 1970 in Storia dell’architettura con Reyner Banham, pioniere della cultura Pop e una delle figure cardinali della disciplina per la sua infinita curiosità e originalità della ricerca. Nello stesso anno pubblica insieme con il canadese George Baird, Il significato in architettura (in Italia pubblicato da Dedalo), che prepara l’esplosione semiotica in architettura, culminata poi con Imparare da Las Vegas di Venturi&Scott Brown. Ben presto Jencks prese a insegnare presso l’Architectural Association, il covo degli studenti più alternativi, stringendo amicizia con quello meno affine al clima utopico e flower power dell’epoca, un olandese che si metteva la cravatta per protesta contro il clima hippie dominante e che uno dei professori più autorevoli, Peter Cook degli Archigram, aveva soprannominato per questo “il fascista noioso”: Rem Koolhaas. A volte la differenza di temperamento può essere il miglior cemento per un’amicizia e quella fra Charles e Rem fu di questa natura, il primo così avvezzo ai castelli in aria, il secondo così dedito alle questioni terrene: le rare volte che si poteva vedere sorridere in pubblico Koolhaas era in un convegno in cui vi fosse anche il critico americano. Sua è infatti la critica più sottile rivolta al libro più celebre di Jencks, The Language of Postmodern Architecture del 1977, vale a dire un anno prima di quello universalmente noto di Lyotard: “Lo hai scritto troppo presto”, visto che la cosiddetta architettura postmoderna che riporterà in auge colonne e timpani troverà slancio dopo la Biennale di Portoghesi del 1980 – Jencks scrisse un saggio nel catalogo, ovviamente. Ebbe tre mogli, la seconda delle quali, Maggie Keswick, assai facoltosa, morì prematuramente condizionando la sua carriera più matura come paesaggista, dapprima nelle tenute scozzesi di lei e poi in prima fila nella lotta contro il cancro attraverso la costruzione di numerosi Maggie’s center affidati ai migliori architetti in circolazione fra i quali ovviamente gli amici Rem e Zaha Hadid. Fondamentali per Jencks sono sempre i giardini, perché gli unici luoghi davvero autobiografici: solo rifugiandosi in essi si rivelano i nostri momenti di massima felicità o si può prendere il coraggio per affrontare le tragedie famigliari.