Downton Abbey romana
Arredi da tavola e da sagrestia, e poi ville e teatri: settecenteschi splendori dei Valadier, da interior designer ad archistar. In mostra alla galleria Borghese
Dopo la mostra alla Frick Collection dell’anno scorso e gli studi sterminati di Alvar González-Palacios, ecco che anche la galleria Borghese dedica una gran mostra ai Valadier, dinastia di designer che improntarono l’aspetto di Roma a partire dal centrotavola prima dei tanti masterchef. Che famiglia: il padre Andrea aveva impiantato bottega a via del Babuino quando Roma era la Milano dell’epoca (anche qualcosa di più, diciamo). Il figlio Luigi diventò il più fico argentiere, orafo e bronzista dell’epoca (ma, diremmo oggi appunto, designer), inventando l’interior di tanti casati arrembanti. Ecco così la colossale mostra “Valadier. Splendore nella Roma del Settecento”, appena inaugurata alla galleria Borghese, a cura della direttrice Anna Coliva, che mostra tutto il genio dell’epoca e del luogo. Novanta opere: sculture sacre e arredi liturgici, argenti profani, bronzi, arredi da tavola, metalli dorati con marmi e pietre dure, disegni, alcuni prestati e altri a chilometri zero, perché Valadier fu genius loci della Villa, al servizio del principe Marcantonio Borghese: e qui, tra colonne e obelischi soprattutto culinari va in scena una Downton Abbey romana pazzesca: centrotavola a forma di tempio romano ed egizio, colonne, orologi, rovine, bronzi e bronzetti, argento, alabastro, diaspro. Protagonisti questi “deser”, trionfali monumenti prandiali, con nome che viene dal “dessert” pronunciato alla romana poi entrato nell’uso tecnico per indicare oggetti ornamentali destinati alla tavola, come quello ordinato da un pezzo grosso dell’Ordine di Malta e poi venduto a Caterina II di Russia, oggi a San Pietroburgo; o quello a forma di tempio di Iside a Pompei per Maria Carolina d’Austria, dal Museo di Capodimonte.
Sterminati servizi per matrimoni internazionali, anche. Un cucchiaio e una caffettiera, con le iniziali coronate del principe Camillo, una terrina con stemma Chigi della Rovere, un cofano per bottiglie con lo stemma del cardinale Stuart duca di York. E poi certo il busto reliquiario di San Bernardino da Siena, il servizio pontificale solenne del Cardinal Orsini con baule originale in pelle e legno di abete, ma anche le statue di santi della cattedrale di Monreale. Completini da viaggio per cardinali molto cool, che ricordano la mostra di Wes Anderson alla Fondazione Prada (ma Anderson qui sarebbe andato fuori di testa, e, diciamolo, a questi livelli difficile competere). Tutto all’insegna dei materiali più sontuosi e degli accostamenti più hard tra pietre e lapislazzuli: il minimalismo non andava tanto di moda nella Roma settecentesca, si capisce. Nel piano seminterrato della villa, downstairs, anche i deliziosi disegni architettonici per queste architetture culinarie che divennero immediatamente di moda nell’Europa del tempo, diffondendosi tra i meglio principi. Che avevano gusti un po’ da emiri: marmi da Las Vegas, porfidi da Gomorra, che piacerebbero ai turisti arabi che oggi affollano la vicina Rinascente. Il povero Luigi non aveva capito bene il business model, e, causa committenze tipo marchese del Grillo che pagavano e no, si buttò al Tevere. Il figlio Giuseppe, in mezzo a tanta architettura da tavola e da sagrestia, fa il grande salto, esce dalla cucina e diventa invece una rinomata archistar neoclassica, sistemando la vicina piazza del Popolo, disegnando tanti “marks” della Roma più da cartolina (villa Torlonia, il teatro Valle, la torretta di ponte Milvio: e naturalmente la casina Valadier: tempio più che architettonico gastronomico della Prima e Seconda Repubblica: segno che forse il genius loci cittadino era e rimane alimentare: del resto, cos’è piazza del Popolo, con i suoi bar e ristoranti e il suo obelisco, se non un gigantesco e magnifico centrotavola neoclassico?).