Niki de Saint Phalle

Parasite maremmano

Michele Masneri

Lotta di classe tra butteri e radical chic, quando Capalbio non era ancora Capalbio. E poi Niki de Saint Phalle, artista perduta. Un romanzo

Capalbio – la piccola Atene – finisce nelle cronache nazionali generalmente per due motivi, o per gli agi estivi (Ultima spiaggia, Macchiatonda), oppure per la fine di questi e l’avanzata di presunti barbari (è stata lì lì per essere conquistata dalla Lega, l’arrivo di pochi emigrati ha scosso la popolazione mettendo in luce le ipocrisie, eccetera). Insomma è lo scenario perfetto per ambientarci una commedia un po’ alla Virzì tra un gruppo di romani – tocca usare l’orrenda parola – radical chic, e i residenti non ancora ingentiliti, i residenti insomma di trent’anni fa, quando la bassa Maremma era ancora fatta di butteri, di cascinali polverosi, di tenute padronali, e i primi romani arrivavano a farsi sedurre da astuti locali che intuivano il valore del cotto antico e del vecchio secchiaio di marmo scheggiato che avrebbe irretito poi anche milanesi. Questo è lo scenario di “Il giardino dei mostri”, il romanzo di Lorenza Pieri (edizioni e/o) che racconta lo scontro di civiltà in un’Italia pre berlusconiana, una specie di “Parasite” maremmano tra l’old money venuto della città, con mariti deputati o professori di storia dell’arte, ragazzine che si chiamano Flaminia e Ginevra e Isabella, e i “local” scaltri.

 

Protagonista la teenager Annamaria o Annamarì, figlia del buttero Sauro che frega tutti i romani, gli scopa le mogli, e mette su un locale che assomiglia molto al Frantoio. Lei potrebbe essere una di quelle ragazze sveglie che oggi vanno a fare i massaggi e le manicure estive tra Capalbio e Pescia Fiorentina. Non si è lontani insomma da “Ferie d’agosto”, ma qui in mezzo alla lotta di classe tra le zanzare e la vista sulla centrale allora atomica di Montalto di Castro pre referendum c’è anche lei, Niki de Saint Phalle, l’eccentrica aristocratica-scultrice che si era fatta dare un terreno dai Caracciolo a Garavicchio e lì aveva dato sfogo all’estro esoterico-artistico, costruendoci ventidue enormi sculture, un po’ parco Guell e un po’ Bomarzo, dedicate ai ventidue arcani dei tarocchi; in una di queste enormi sculturone curvy, l’Imperatrice, ci abitava pure, tra lavastoviglie e frigoriferi specchiati oggi visitabili.

 

Ispirata da Gaudí ma soprattutto dai numerosi elettroshock a cui era stata sottoposta, Catherine Marie-Agnès de Saint Phalle, discendente da una araldica famigliona francese, dopo anni trascorsi a far da modella tra Vogue e altre frivolezze, aveva capito d’esser finalmente artista grazie a un soggiorno in clinica psichiatrica e all’amore travolgente di e per Jean Tinguely. Il romanzo, parallelamente alla formazione delle ragazze romane e maremmane, alle storie d’amore e d’affari dei due clan, racconta infatti anche la pazza storia d’amore tra i due artisti: lei bellissima e dolente, lui esteticamente svantaggiato ma carismatico; lui progettava soprattutto le sue Machines Inutiles che diventano il suo marchio di fabbrica: sculture un po’ Mad Max assemblate con materiali di scarto, oggetti trovati casualmente e combinati tra loro in modo da formare figure ancestrali e grottesche. Lei invece diviene famosa soprattutto per le sue Nanas, bambinacce giganti dai colori sgargianti di cui poi dissemina l’Europa. Ma prima ancora, i Tiri, i colpi di carabina indirizzati a sacchi di pittura o sculture, rappresentanti anche la figura maschile. Era infatti anche una femminista (come biasimarla, del resto, con quel cognome).