Villa Planchart, Caracas 1953-57, Venezuela © Gio Ponti Archives

Casa di Gio

Michele Masneri

Non solo il Pirellone. Abitazioni, chiese e hotel, ceramiche, lavandini, maniglie. Il mondo di Ponti arriva a Roma in una grande mostra

Bisognava forse vederlo a Roma per capirne definitivamente la statura eroica-nazionale. Così, sulla loggia più alta del Maxxi, ecco svettare un Pirellone in scala, e attorno disegni e modelli del più puro genio milanese: Gio Ponti. Si è aperta appena la mostra, Amare l’architettura, titolo di una suo celebre opera-mondo, dopo quella al museo delle arti decorative parigine, e la celebrazione accaventiquattro nel “museo diffuso” di Ponti, cioè Milano (basta alzare gli occhi al cielo). Però visto nella luce romana fa un certo effetto, perché più di tanti colleghi, si capisce che Ponti fu genio mediterraneo. Puramente italico, anzi straitaliano: capace di dare l’identità cementizia della Milano del Dopoguerra ma anche – forse unico – edificatore ecclesiastico sublime (le chiese, cosa c’è di più difficile che costruire una chiesa moderna?) – e autore di progetti marinari per Dolci vite in pieno splendore. Così, qui in mostra, ecco i manufatti milanesi, il Pirelli, naturalmente, che segnò un’epoca di grattacieli in cui l’Italia insegnava agli altri a farli (di lì, Alvar Aalto lo copiò in pieno per il suo Pan Am Building di New York poi MetLife). Dettagli però commoventi, come il “tappo” superiore a far venir fuori l’involucro rendendo omaggio al maestro ingegneristico strutturale Nervi; e il palazzo Montecatini col suo esterno inquietante e gli scaloni con corrimano a M, e prima ancora la programmatica torre e palazzo Rasini a porta Venezia prima che ci fossero le ragazze e oggi finalmente visibile causa fine delle nebbie. Però, nel frattempo, studi sui materiali più “giusti”, l’amore per le ceramiche, usate sia a illuminare “le nostre città fumose”, come i palazzi Ina a piazza Liberty a Milano (“per le città fumose con vie strette, facciate lucenti illuminate dal cielo”), sia per arredare bar di attrattiva giamaicana (ma a Sorrento) dove vengono scelti piccoli ciottoli candidi per le pareti. Mentre nelle stanze, parliamo del Parco dei Principi, ceramiche speciali del colore azzurro mare, per fare una specie di infinity-pool lavabile che connette direttamente all’orizzonte. E a Taranto, la hitchcockiana concattedrale con quell’enorme campanario-rastrelliera che serviva, si è scoperto, “per ospitare gli angeli”, perché l’iperitaliano Ponti è anche cattolico, come spiegano nella gustosa visita-conferenza stampa i curatori Fulvio Irace e Maristella Casciato passandosi il microfono come consumati standup curator.

 

Si è detto che Milano fu un grande playground per questo genio, e di certo da lì si parte (“altre città hanno tutto, Napoli ha il mare e le isole e il Vesuvio, per Milano Dio non ha fatto niente, così tocca a noi fare in modo che sia una bella città”, dice in un video d’epoca), però a un certo punto tutta l’Italia, e anzi il mondo, aspirano a essere disegnati da Ponti. “Il suo punto più alto”, mi dice il nipote e fotografo d’architettura Paolo Rosselli, che ha curato una mostra nella mostra, coi ritratti delle sue opere, “lo raggiunge negli anni Cinquanta, nel Dopoguerra. Ci sono architetti che sono esplosi prima, lui trova la sua voce più compiuta solo in quegli anni, col Pirelli ma anche con la villa Planchart a Caracas”, dove Ponti stesso dice di aver messo “tutta la mia immaginazione”, anche disegnando dalle fondamenta ai piatti una specie di domus romana dalle linee spezzate corbusieriane. “Perché lui ha fatto forse troppe attività. Ha scritto, ha fondato Domus, era un imprenditore, avendo gestito la Richard Ginori; così la sua vera voce viene fuori tardi”, dice Rosselli. Naturalmente la geniale versatilità, in un paese di iperspecializzati, causò sospetto e contribuì non poco alla fama di un Gio Ponti “designer”, anche tanti anni fa, quando la parola non voleva dire ancora niente di buono.

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