Quanta vita in quei palchi
Sembra davvero aleggiare lo spirito dell’Anonimo lombardo, di quella love story così contemporanea prima delle porte Venezia rainbow, dove a una prima della Scala scocca l’amore epistolar-scaligero narrato da Arbasino. Che flash, “Nei palchi della Scala”, così si chiama la mostra, in quel museo stupendo del teatro che sembra una casa d’appuntamenti o di una zia molto simpatica, con parquet scricchiolanti, tende pompier, ritratti di Maria Callas e Renata Tebaldi in Technicolor che sembrano dei Vezzoli e testine di Strehler e diffusori di profumi fortissimi. Qui, in mostra oggi appunto tante storie sulla Scala come condominio molto abbiente di palchettisti ereditari, con i più bei nomi di Milano che dal 1778, anno di apertura, fino al 1920, anno di esproprio proletario quando la Scala diventa bene comune e “partecipato”, perdono i loro diritti e si devono abbonare come tutti. Si sa che nei palchi si faceva quasi tutto tranne che vedere lo spettacolo: così, ecco ordinanze e divieti (d’installare fornelletti, in una bolla datata 1778). Rimproveri (dell’abate Parini al giovane Alessandro Manzoni, per giocar d’azzardo nel ridotto, che era un ritrovo di gran successo, e pareva un’astuta mossa per portare i giovani a teatro, meglio dei bonus cultura odierni).
I palchi ogni famiglia se li arreda come vuole: generalmente consistono di “cadreghette tamburini panchette” e soprattutto specchiere per spiarsi a vicenda. Interessanti sempre sul versante voyeuristico le proprietà e i passaggi di proprietà: Cesare Beccaria papà del garantismo e nonno del Manzoni stava sovente al palco 16 di prim’ordine destro dei Belgiojoso insieme a Pietro Verri. Foscolo nel 7 a sinistra di Antonietta Fagnani Arese cioè poi l’amica risanata. Manzoni stesso nel 13 di sinistra degli Arnaboldi Carzaniga, antenati della sindaca Moratti già raffigurati in “Fratelli d’Italia”. Stendhal nel 3 a destra (“un palco alla Scala costa quanto un appartamento a Parigi”, notava quel fanatico di Milano, e non c’era ancora stato l’Expo). Il tempo cambia tutto, ma non molto: i francesi faranno togliere gli stemmi. Gli austriaci preoccupati da tutti quei sovversivi lombardi montano a un certo punto il gran lampadario (“la lumiera”) per vederci chiaro. Nel ’20 appunto l’esproprio, con conseguente omologazione di censo e d’arredo.