Susan Fowler: lavorara a Uber, aveva subito un po' di stranezze nella start-up californiana e l'aveva scritto in un post sul suo blog, che tre anni dopo ha prodotto la cacciata del fondatore

La valle molesta

Michele Masneri

Pochi se lo ricordano, ma il MeToo nacque nella Silicon Valley prima che a Hollywood con Weinstein. Ecco il libro. Poi arriverà il film

Arriverà in America il 18 febbraio, appena dopo San Valentino, per dare la botta finale ai maschi, specialmente quelli della Silicon Valley. Quel giorno uscirà il memoir di Susan Fowler, ragazza sconosciuta ai più, che è stata però la pioniera del MeToo quando non si chiamava ancora così. Come qualcuno ricorderà, la mobilitazione anti machismo è nata infatti a San Francisco, e solo dopo è scivolata giù a Los Angeles. A scatenarla fu proprio lei, un’ingegnera venticinquenne che lavorava a Uber, che aveva subito un po’ di stranezze nella startup californiana, e che a un certo punto scrisse un post sul suo blog. Post che a tre anni di distanza ha prodotto la cacciata del fondatore, lo sputtanamento generale dell’azienda, e l’innesco di quello che è uno dei paradigmi più rilevanti di questi anni. Il libro si chiama “Whistleblower – il mio viaggio in Silicon Valley e la lotta per la giustizia a Uber”. La sua storia è avvincente: ragazzina figlia di un pastore evangelico che la alleva a casa, si laurea fortunosamente in un’università dell’Arizona, poi arriva nella Silicon Valley dei rombanti anni Dieci, e nella allora startup più promettente (Uber è nata nel 2009) pensa di essere al top dell’emancipazione, e invece piomba in un ambiente da manate sul culo e rutto libero; il suo capo comincia a corteggiarla pesantemente, lei fa presente la cosa alle risorse umane, le dicono che può cambiare divisione, anzi le conviene, perché a questo punto non farà molta carriera sotto di lui, che peraltro è un bravissimo manager e non ha mai avuto problemi di questo tipo. Lei cambia divisione, e lì scopre che anche le poche altre donne che lavorano a Uber (sono sempre meno, scappano tutte), hanno avuto esperienze simili. Alcune anche col manager in questione (quindi le risorse non molto umane raccontano balle). Lei continua a rompere le scatole, anche per questioni un po’ così (a un certo punto l’azienda ordina giacconi di pelle da regalare a tutti i dipendenti ma non per le donne, che sono solo 6 su 120 dipendenti), per le mail sessiste (le mail sessiste sono una specie di format di Uber, come quelle organizzative per raduni aziendali in cui il ceo Kalanick raccomandava di non fare sesso tra dipendenti, “se i due – o più – dipendenti interessati lavorano nello stesso team”.

 

Kalanick scriveva poi che lui sarebbe andato in bianco a ’sto giro”, e poi seguiva hashtag #ceolife #FML cioè fuck my life, una vitaccia, quella da amministratore delegato. Tutto è agli atti di processi, querele, articoli, tutto finito nel tritacarne dopo il post della Fowler del febbraio 2017 (il caso Weinstein scoppia solo a ottobre). Uber è diventato intanto in America una specie di sinonimo di molestia, solo pochi giorni fa l’azienda è stata infatti condannata a pagare 4,4 milioni, che andranno a risarcire tutte le vittime di discriminazioni da parte di suoi dipendenti (ma poi ci sono anche le accuse di passeggere d’essere state violentate dai guidatori). Insomma, un disastro, anche e soprattutto di pubbliche relazioni. Il fondatore, Travis Kalanick, un tempo idolo tecnologico-erotico, prototipo di founder alfa della valle, si è dimesso da tempo, e da qualche settimana ha venduto le ultime quote. Anche la crisi di Uber sul mercato deriva in parte da questa vicenda.

 

La Fowler invece ora lavora al New York Times, ha scritto questo libro che prestissimo diventerà un film, dovrebbe essere sceneggiato dall’autore di “Hidden figures”, Allison Schroeder, e la storia sarà una specie di “Erin Brockovich” in Silicon Valley. Sarebbe bello però se assomigliasse a “The Morning Show”, la serie in onda su Apple Tv che parla del MeToo senza la mannaia moralizzatrice, ma con uno sguardo lucido che ammette la sfumatura. Lì c’è un giornalista tv molestatore; molestatore orgoglioso di stagiste, che non vuole proprio accettare che comportamenti buoni negli anni Cinquanta improvvisamente non siano più decorosi. Forse è stato così anche a Uber; dove cento maschi scatenati lavoravano h24 in capannoni siliconvallici consapevoli di poter diventare bilionari a breve. Con background spesso rustici, forse convinti d’essere in una confraternita; del resto il settore dell’auto non è stato mai proprio il più femminista. Inoltre uno dei problemi del sessismo in Silicon Valley è che i laureati in informatica sono al 99 per cento maschi. Così è più facile che si diffonda un clima da caserma. Questa era l’impressione che ci si è fatti leggendo - anche l’ultimo libro di Mike Isaac, “Super Pumped”, su questi maschi di Uber molto gasati. La si cercò a lungo, anche, la Fowler, a San Francisco, ma lei vive da reclusa dopo gli scandali. Si era stati anche nell’azienda del marito, l’italoamericano Chad Rigetti, che produce computer quantici, per provare a stanarla: ma niente (e però anche nell’aziendina di lui, di donne neanche l’ombra).

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