Arbasino fa 90
Ricordi quasi privati dei novant’anni appena compiuti dallo scrittore. Certe gite e certe colazioni, quasi come in “Fratelli d’Italia”
Che inizi: mi cadde letteralmente in testa da un’alta biblioteca durante gli studi di diritto internazionale il suo “Anonimo lombardo”, autobiografia culturale (scritta a vent’anni) travestita da romanzo epistolare di scopate, in una Milano molto operistica e gay prima delle porta Venezia rainbow. Poi, superate le impossibili immedesimazioni, si divenne amici, per quanto era possibile diventarlo di AA; si comprò anche una piccola spider, con cui sognavo di portarlo su e giù per la Balduina come lui faceva con Gadda, ma niente. Giustamente sospettosissimo di piccoli fans, appartato, stava bene solo con gli amici storici oppure nella dimensione “social” dello small talk. Evitando il cheek to cheek che può facilmente degenerare nella – orrore – intimità.
Maestro involontario e solitario, fatalmente. Mai avuto discepoli o allievi, e neanche voluti, nella costante disciplina di una ricerca figurativa e libresca oggi inimmaginabile. Eccolo, in un saggismo geopolitico tra Valentino e Maria Angiolillo, altri illustri vogheresi che vivevano e operavano a Roma nel raggio di duecento metri da piazza del Popolo: e che hanno vestito/seduto/raccontato Roma. L’unico scrittore italiano con uso di mondo globale, di casa dagli Agnelli (di qui, gelosie con Truman Capote che traspaiono nell’introduzione perfida al Meridiano. E rispetto per quell’altro titano, Gore Vidal, proprio inattaccabile: sublime stilista, patrizio kennediano, inutile mettercisi). Son sempre stati questi i benchmark di Arbasino, non certo i premi Strega e Bancarella e le diatribe e le petizioni per le università. Piuttosto, la rinascita (“nato a Voghera, rinato a Roma”) in una Roma difficilmente immaginabile oggi, con Vidal sopra torre Argentina, princess Margaret stanziale al Bolognese, Rudy Nureyev molto seccato tra una frasca e i salotti che, si lamentava, eran tutti “di comunisti”). Altro che buche e cassonetti: Roma come luogo d’approdo internazionale anche fuggendo dalla triste Milano; fondale per un lavoro indefesso – molto lombardo – ma assai divertente all’opera totale: lo stile ineccepibile nell’abito come sulla pagina.
“Il mio guardaroba intellettuale contiene pochi capi interi” (Mario Praz). Come in Gianni Agnelli forse la perfezione di vita come opera d’arte ha fatto qualcosa alla persona interna. Per AA, un ritegno e una timidezza – ci vollero anni per capirlo – che gli impediscon di mollare difese, palizzate, lo snobismo a difesa dell’ipersensibilità (orrore). C’è un pezzo di “Fratelli d’Italia” in cui descrive un giovane intellettuale lombardo piombato nella solita Roma: “Era come Lord Jim, era ‘one of us’, un ragazzo padano beneducato che arriva a Roma coi suoi autori stranieri già letti, pronto a conoscere tutti, disponibilissimo all’amicizia e all’amore e a ‘stare al gioco’ – anche magari al gioco più greve che spiritoso dell’invettiva corporea tipica di una società alle fettuccine e all’abbacchio – ma conservando una vasta zona di vulnerabilità segreta e indifesa di fronte all’inganno, al tradimento, ai brutti scherzi, all’inutile villania”. “Un outsider venuto da un altrove, anche se qui è entrato senza sforzo nel cuore d’una società che si sforma, riforma, e deforma, conforma”.
Mai “a domani!”. Semmai: “A presto!, a presto!”, è sempre stato il suo saluto. Mai voluti epigoni, né nipoti né nipotini. Il suo mezzo di comunicazione erano piuttosto le celebri cartoline assurde: duomo di Milano (“Auguri! Auguri!”), slitte da St. Moritz (didascalia: “Schiocca la frusta!”). In casi fortunati, juke boxe ben temperato: gli chiedevi e lui partiva, era come un “Fratelli d’Italia” col backstage. Che privilegio certe gite. E lì, Umberto di Savoia che a Cascais riceve monarchici romani che pianificano restaurazioni, ma lui è molto più interessato a certe nuove tende di amiche sue. E poi: chi è chi? Chi era la Cazzaniga? Chi quella dama che si tuffò per farsi salvare dall’Avvocato? Molto attento però a non fare mai autodistruzioni alla Capote. E così, sempre, tutte le principesse, intorno, tutti i cigni presenti. Anche: gestione e controllo dell’opera totale, restyling, riedizioni, tutto, anche autobiografia (nel fondamentale Meridiano curato da Raffaele Manica).
Nella sua casa dietro piazza del Popolo si rimase stupiti la prima volta non tanto dalle gigantesche AA dorate sulla porta, da certi soffitti da Studio 54, dai libri con dedica (da T. S. Eliot in giù), piuttosto dalle gardenie del terrazzo che curava amorevolmente – un gesto così umano. E poi un autoritratto doppio inquietante di Pasolini e Alberto, le loro due facce sovrapposte, simili in maniera sinistra. Nel mondo di AA cambiò tutto alla morte di PPP. Lifestyle rustici-avventurosi svanirono per terrore. Entrò in scena Stefano, “l’amico Stefano” (mancato qualche anno fa, che belli che erano, vestiti uguali, pantalone grigio, blazer blu, gemelli, camicia bianca e cravatta regimental. Spesso, nelle colazioni, con due mazzi di fiori, uno per uno, per la padrona di casa).
Come da Bianchina Riccio, allieva dell’Anglologo, antiquaria e femme savante, dove s’era creata una piccola tradizione di lunch pasquali con Alberto, Stefano, e la leggendaria Domietta del Drago che era poi la Desideria protagonista di “Fratelli d’Italia”. Che ansia, le prime volte, sedere accanto ad AA e insieme al suo personaggio. Era la Arbasino full experience.
Domietta non diceva mai niente, con le inestimabili serpi d’oro di Cartier al collo, e le Hogan ai piedi per far la spiritosa. A una colazione tacque tutto il tempo, finché quando la conversazione verteva da un bel po’ su una dama, si alzò il suo vocione patrizio: “Ma chi? Quella con quelle calze bianche, da infermiera?”. Era del resto famosa, Domietta-Desideria, per aver annichilito una lei che le si era avvicinata con un mondano “scusi signora”. “Signora sarà lei!”, aveva risposto lei, doppiamente principessa. Auguri! Auguri!