Mies, quasi una religione
L'opera del maestro tedesco in un nuovo volume curato dall'editore LetteraVentidue
Qualche anno fa, una rivista di Barcellona voleva dedicare un numero intero a Ludwig Mies van der Rohe, che proprio in quella città realizzò il suo primo capolavoro, il padiglione della Germania alla fiera del 1929. Bene, nessuno o quasi rispose all’appello perché Mies è uno di quegli autori che incutono più timore reverenziale. Nato ad Aquisgrana nel 1886, figlio di uno scalpellino come Adolf Loos, dal fisico imponente, taciturno e dal faccione inespressivo, non esiste una fotografia di lui senza cravatta o senza un grosso sigaro cubano acceso, spesso con un drink in mano; le sue sentenze non ammettevano repliche, affatto lapidarie: “L’arte del costruire è sempre l’espressione spaziale di una decisione spirituale”. Le sue scarne citazioni sono inappellabili, San Tommaso e Sant’Agostino – Mies era pressoché l’unico maestro del moderno di religione cattolica – e anche i suoi primi esegeti hanno alimentato il mito della sua dimensione mistica. “Mi succede con Mies come con una religione che pure essendomi straniera mi avvince. Perché egli è certamente uno dei grandi sacerdoti della nuova architettura”, scrive Max Bill in una piccola monografia pubblicata dal Balcone di Milano nel 1955. A quella collana si richiama ora la collana Figure dell’editore LetteraVentidue di Siracusa, che pubblica Renato Capozzi, Lo spazio universale di Mies, che già dal titolo rimanda a orizzonti sconfinati.
L’autore, sulla scia di Antonio Monestiroli, ammette di nutrire una vera ossessione per l’opera del maestro “venerando e terribile” nella quale in molti hanno visto e vedono molto di più al di là dei suoi progetti metafisici. Capozzi esegue una rassegna iniziale della non lunghissima bibliografia su Mies per poi dedicarsi ad alcuni aspetti e progetti particolari, Lichtung Räume cioè spazi di luce: gli edifici ad aula, che specie nel periodo americano si moltiplicano. Pur non ricalcando la biografia del maestro tedesco, il saggio lascia trasparire alcune oscillazioni come il peso che Frank Lloyd Wright ha esercitato soprattutto nell’apertura delle scatole miesiane verso il paesaggio – del resto è noto che sulla porta dello studiolo di Mies al Bauhaus era appeso proprio un poster di Wright – e questo è l’aspetto più anticlassico della sua opera. Tuttavia Capozzi sottolinea come il classico resta un orizzonte a cui Mies ha costantemente teso, non un punto di partenza quanto di arrivo. E infatti il libro si chiude su un progetto irrealizzato e irrealizzabile, quello per una cattedrale, ma in fondo anche l’ultimo progetto della Galleria nazionale di Berlino, quando Mies ritorna a casa dopo circa trent’anni, si può considerare una cattedrale laica piuttosto classica che guarda più a Karl Friedrich Schinkel che al Bauhaus. Tanto che non piacque per niente a Bruno Zevi, il quale già per il Seagram Building di New York aveva scritto sull’Espresso: Mies, là dove il razionale si logora nel classicismo.