Razionalista senza fronzoli
Sta passando in sordina il cinquantenario della morte di Giuseppe Vaccaro, architetto e ingegnere di prim'ordine
In quest’anno disgraziato passa in sordina il cinquantenario dalla morte di Giuseppe Vaccaro (Bologna 1896 - Roma 1970), architetto non tra i più celebri del “secolo breve”, ma certamente di prim’ordine. Lo testimoniano, oltre alle opere, le collaborazioni illustri. Dopo gli studi artistici e in ingegneria a Bologna, Marcello Piacentini lo nota subito e lo chiama a Roma per un apprendistato nel suo studio nel fatale 1922. Grazie a lui vince una serie di piccoli concorsi sia in Emilia sia a Roma, che sono i due poli fra i quali farà la spola costantemente. Questa mobilità e la doppia natura di architetto e ingegnere lo terranno sempre al riparo da ogni consorteria, anche da quella piacentiniana, visto che nel 1927 vincono ex aequo un concorso per il Palazzo delle Corporazioni (oggi sede del ministero dello Sviluppo economico), sono costretti a farlo insieme sebbene Sua Eccellenza non voglia riconoscere troppo la firma dell’allievo. Ne nasce un diverbio insanabile che non ostacolerà più di tanto la professione di Vaccaro, in un’epoca ricchissima di lavori pubblici e privati, mentre la strada gli verrà sbarrata invece nella carriera universitaria – Piacentini è onnipresente anche nelle commissioni accademiche. Le prime opere dell’architetto bolognese vedono la luce negli anni Trenta e sono monumentali: il palazzo delle Poste di Napoli, firmato insieme con Gino Franzi, ricuce una parte centrale del capoluogo campano utilizzando materiali locali recuperando anche alcuni ruderi di un vecchio convento, ma pur sempre con un piglio modernista e con echi mendelsohniani (nel senso di Erich) esaltati dagli indimenticabili scatti diurni e notturni di Gabriele Basilico. Seguono la facoltà di Ingegneria di Bologna, i Giardini Margherita fuori porta Saragozza, ma soprattutto la razionalistissima Colonia marittima Agip di Cesenatico che arriva su incarico diretto grazie anche al fatto che l’amministratore delegato di allora portava lo stesso cognome della madre dell’architetto. Pochi anni dopo la realizzazione di questo edificio bianco sul mare usato spesso per illustrare le copertine dei volumi di storia del fascismo, Gio Ponti scrisse su Stile che “questo è forse il più bel Vaccaro: linee grandiose, decise, energiche autoritarie: unità assoluta. Bellezza raggiunta senza delicatezze d’estetismi, senza complicazioni di nessun genere nemmeno cerebrali, bellezza diretta. Forse nessun edificio testimonia meglio di questo lo stile di Vaccaro”.
Eppure il meglio di sé forse lo dà nel dopoguerra, forte di uno scambio di idee assai produttivo iniziato ben prima con Adalberto Libera, Mario De Renzi e Pier Luigi Nervi. Sempre a Bologna si impegna nella costruzione di nuovi quartieri periferici con una sicura mano urbanistica, tenendo per sé le parti pubbliche come le chiese, notevole ad esempio quella di Borgo Panigale che Luigi Moretti pubblica su Spazio e Bruno Zevi su L’Architettura, cronache e storia. Sono però i progetti Ina-Casa di Piacenza (1953-55) e di Ponte Mammolo a Roma (1957-62) che oggi brillano: nel primo Vaccaro inserisce un delizioso asilo nido che attraverso il muretto circolare cinge i bambini delle famiglie operaie del quartiere in un abbraccio materno (il caso vuole che il piccolo Mario Cucinella fosse tra questi), mentre nel secondo collabora al progetto una giovane architetta sudafricana di passaggio a Roma, Denise Scott Brown, autrice in seguito del classico Imparare da Las Vegas, ma anche di un saggio dal titolo Imparare da Vaccaro. Il marito, Robert Venturi, negli anni 70 scopre grazie a Denise la chiesa di Recoaro Terme del 1950, vinta in un concorso ecclesiastico dove in giuria siede ancora Piacentini, tanto per cambiare. Venturi lo ritiene un piccolo capolavoro perché Vaccaro si attiene qui alle convenzioni, ma alla fine infrange sottilmente le regole come nei migliori esempi dell’amato manierismo romano, ad esempio prediligendo la forma curva di alcune facciate, vedi Baldassarre Peruzzi a Palazzo Massimo alle Colonne, appunto.