Terrazzo

Non solo Proust

Michele Masneri

La poltrona “maggiorata” e tutto il resto. Al Madre di Napoli le ricerche di Alessandro Mendini, il meno etichettabile dei designer italiani, scomparso l’anno scorso

Metti Mendini al Madre: è la prima mostra di design al museo napoletano, quella che comincia il 29 ottobre, in onore del milanese che più portò lo scompiglio nel “bel design” dei Castiglioni, Magistretti, Mari. Con “Alessandro Mendini: piccole fantasie quotidiane”, realizzata in stretta collaborazione con l’Atelier Mendini e curata da Arianna Rosica e Gianluca Riccio, il Madre celebra tutte le tappe fondamentali della carriera del piu poliedrico, ironico e scapigliato dei designer e architetti italiani, morto un anno fa. Noto soprattutto per alcuni manufatti – ebbene sì – iconici, è condannato all’etichetta di papà della Proust, la poltrona Luigi XVI puntinata – la “maggiorata fisica delle poltrone italiane” secondo Ugo Gregoretti, in un archeologico programma Rai dedicato al design.

 

Mendini è stato invece un po’ il Battiato del design italiano: tutti ricordano i suoi riff più consumati e di successo, sotto cui però giaceva un enorme e sommerso lavorio di ricerca che costeggia e interseca i maggiori movimenti artistici del Dopoguerra. “Da questo ‘faticoso vagare’, all’inizio del nuovo decennio, che lo porta dall’approfondimento dell’Arte Povera, degli oggetti banali e del kitsch e dal confronto con le esperienze di Sottsass, Pesce, Archizoom e Superstudio, Mendini estrae all’inizio degli anni Settanta quelle che saranno le linee guida del proprio linguaggio architettonico e del proprio metodo progettuale: aperto all’impiego di materiali ed elementi naturali – la paglia, la terra, il fuoco – e al recupero di vocazioni comportamentistiche per un’architettura contingente e progressiva”, dice uno dei due curatori, Gianluca Riccio.

 

Nel 1970, non ancora quarantenne, Mendini assume la direzione della storica rivista Casabella. Da qualche anno un gruppo di giovani architetti, artisti e intellettuali, fra cui Gianni Pettena e Remo Buti, accanto ai gruppi Archizoom e Superstudio e ai collettivi Ufo e Zzigurat, stanno organizzando una piccola rivoluzione culturale mossa sotto le insegne di multidisciplinarietà, collettivizzazione, ironia e dissacrazione, ricorda la presidente del Madre, Laura Valente. È nato il design radicale e nasce “Global Tools”, una specie di controscuola di architettura molto hippie a cui partecipano Mendini e Casabella insieme a Superstudio, Ettore Sottsass, Ugo La Pietra e altri.

 

Mentre fuori nell’Italia mefitica degli Anni di piombo ci si spara inutilmente, e si progettano petrolchimici, Mendini e gli altri riagganciano per un attimo l’Italia alla contemporaneità, ai movimenti americani che poi produrranno Internet e la Silicon Valley (ecologismo, ritorno alla natura, scardinamento dei modelli di lavoro precostituiti, nuove connessioni nella società). Poi però non si produrrà nessuna Silicon Valley, rimangono i petrolchimici, ma il percorso di Mendini resta unico nella sua assoluta libertà (disegnerà anche un disco dei Matia Bazar, nello scompiglio dei colleghi).

 

“Sono laureato in Architettura, ma, se dovessi descrivermi, non mi descriverei come un architetto, forse come un artista, un creativo. Le etichette non mi piacciono”, diceva di sé, ricorda l’altra curatrice, Arianna Rosica. “Io non sono un architetto, sono un drago”, dice invece a Stefano Boeri, che ricorda come in un disegno Alessandro Mendini si raccontava e si rappresentava appunto come creatura sputafuoco. Con il corpo da architetto, la testa da designer, il petto da manager, la coda da poeta e via dicendo”. Mendini stava benissimo a Napoli: città che ha rappresentato un grande teatro per l’architetto-designer, un luogo dove mettere in scena i suoi “mobili infiniti” o “monumenti continui”, come le fermate Salvator Rosa e Materdei della metropolitana napoletana (che, in effetti, è la cosa più somigliante a un’architettura radicale, nel bene e nel male, che sia mai stata fatta in Italia).

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