Terrazzo
Gallerie in campo
Nasce "Italics", network che racconta il Paese in funzione anticrisi. Perché non tutto va male nel mondo dell'arte. Parla Massimo Minini
Son tempi complicati, post (speriamo) Covid, e ogni settore si riorganizza. Non poteva mancare quello delle gallerie d’arte: così arriva un’idea nuova che si chiama Italics, è una via di mezzo tra le experience di Airbnb e un magazine d’arte: un network di soggetti in cui ogni galleria segnala una cosa da vedere (si chiamano tips) su e giù per l’Italia. Partita da un’idea di Pepi Marchetti Franchi e Lorenzo Fiaschi, con nove gallerie che a loro volta ne hanno coinvolte altre 54, ognuna crea un contenuto, un’indicazione di cose da vedere: piccoli musei, case d’artista, botteghe, ristoranti, hotel, siti archeologici, fenomeni particolari per veri esperti del territorio. Ogni galleria fa un po’ da piccolo presidio della propria regione. Si va dalla Chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa di Muzio raccontata da Kaufman Repetto, decorata dall’ultima opera di Dan Flavin, al canto dei monaci sull’Aventino all’ora del tramonto che Pepi Marchetti Franchi ha scoperto insieme a Theaster Gates, passando per l’Archivio del Monserrato, la boutique di design e artigianato di Soledad Twombly, vicino a Campo dei Fiori, fino ai Bagni termali pubblici di San Gimignano di cui parla Carlo Virgilio (tutto online sul sito Italics).
Massimo Minini, gran signore dell’arte e gallerista bresciano, è uno dei segnalatori, e segnala invece l’installazione di Giulio Paolini che organizzò nel 2012 nel Teatro Grande di Brescia. “Due teste paoliniane che si riflettono una in uno specchio, l’altra in una fotografia, nel foyer del teatro rococò, anzi nel ridotto, come lo chiamiamo a Brescia”. Era la sesta mostra che Paolini ha fatto da me, ricorda Minini. “Anche troppe, né lui né io amiamo rifare le stesse cose”. Vabbè. Minini sta appunto andando in macchina al castello di Rivoli a vedere la mostra di Paolini, “in occasione del suo ottantesimo compleanno. Purtroppo. Generazione del ’40, come Spalletti, Boetti, Celant… sono spariti tutti”. Ma Minini non è un nostalgico. Com’è il momento per il settore? “Un po’ difficilino”, dice. “Da una parte la gente non è che muore dalla voglia di entrare in una galleria, dall’altra però c’è un fattore positivo, anzi due. Ci si muove di meno, nel weekend non si va tanto fuori città, quindi un salto in galleria te lo fai. Il pubblico sta tornando nelle gallerie. E poi soprattutto non ci son più le fiere. Le fiere sono una bellissima cosa, ma costano un patrimonio. Così io quest’anno ho fatto la metà del fatturato, ma il doppio degli utili”. Insomma, vogliamo un Covid tutti gli anni? “Potrebbe essere così. Facci il titolo!”, dice Minini. Poi: “Io provoco, eh, nel senso di provocare una reazione positiva. Ma in questo momento col Covid paradossalmente c’è più visibilità per le gallerie, eravamo tutti immersi in un sistema più veloce e ampio, quello delle fiere. Che vanno benissimo, ma costano troppo. Abbiamo bruciato un sacco di arte per fare le fiere”.
Ci sono stati altri periodi così difficile per l’arte? “No, perché tante crisi, come quella petrolifera, erano economiche, qui invece c’è la paura di lasciarci la pelle”. E il futuro come lo vede? “E che ne so? Tutti chiedono previsioni. A me chiedono sempre le previsioni per domani, ma chi lo sa cosa succederà domani? Bisogna vivere un po’ alla giornata, vedendo cosa succede, e forse anche facendo meno. Con più qualità. Ha ragione Paolini, che si sottrae: lui lo teorizza: meno opere, più qualità! Scrivilo! Rarefazione e qualità!”. Ma sono assolutamente d’accordo, guardi. “Sai qual è un’altra contraddizione? E’ che tutti diciamo che non sarà più come prima, ma pensiamo fortissimamente che sia come prima”. E per gli artisti come sarà? Più difficile? Come prima?Diverso da prima? “E che ne so, io?”.