TERRAZZO
Una critica radicale
Addio a Lara-Vinca Masini, tra gli ultimi storici dell'arte che si occupavano di tutte le arti e di tutte le epoche
Prima dell’era delle specializzazioni, quella attuale in cui troviamo fra i professori l’esperto di barocco alpino accanto a quello del romanico abruzzese, gli storici dell’arte si occupavano di tutte le arti e di tutte le epoche, o quasi. Una delle ultime esponenti di questa razza scientifica in via di estinzione era anche Lara-Vinca Masini, scomparsa sabato nella città dov’era nata nel 1923, Firenze. Di umili origini, padre morto nell’ultimo bombardamento di Firenze nel 1944 e madre sarta, la giovane studentessa si fece strada dando ripetizioni al figlio di Carlo Ludovico Ragghianti, il grande storico delle arti (compreso il cinema) sodale dei fratelli Rosselli. Con lui e la moglie Licia Collobi lavora dal 1958 alla pubblicazione di “Sele Arte”, importante finestra sul mondo intero, aiutato anche finanziariamente da Adriano Olivetti, che in quegli anni è animatore culturale unico – Bruno Zevi, allievo di Ragghianti, imiterà sulla sua rivista introducendo la sezione “Sele architettura”. Sempre Ragghianti la introduce all’architettura, organizzando tre mostre capitali di Frank Lloyd Wright, Le Corbusier e Alvar Aalto, e quindi tutte le generazioni degli architetti fiorentini: dal capostipite Giovanni Michelucci, ai due Leonardi, Ricci e Savioli, Edoardo Detti, fino ai più giovani Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Andrea Branzi, Lapo Binazzi, insomma i radicali.
“Durante il Novecento l’architettura è diventata la protagonista fra le arti, la più seguita” scriverà non a caso nell’ultimo grande libro uscito giusto lo scorso anno, Scritti scelti 1961-2019, a cura di Alessandra Acocella e Angelika Stepken (Gli Ori, € 35), volume di cui era felicissima e che ha regalato a piene mani negli ultimi mesi. Fondamentale è stato infatti il suo apporto alle neoavanguardie fiorentine Superstudio, Archizoom, Ufo, 9999, Zziggurat, Remo Buti e Gianni Pettena, quando nessuno scommetteva su di loro così come fondamentale è stata la sua opera di dialogo fra le diverse arti: memorabile in particolare la sua mostra “Umanesimo Disumanesimo nell’arte europea 1890-1980” che, sulla scorta dell’Antirinascimento di Eugenio Battisti, criticava i cliché del Rinascimento toscano rivelandone il dark side grazie agli interventi di artisti e architetti internazionali in luoghi chiave della città, come Fabio Mauri che tinse di rosso sangue la fontana della Palazzina Reale teatro dell’incontro fra Mussolini e Hitler nel 1938 nella stazione di Michelucci o delle fredde reti da letto e dei sacchi da trincea di Hans Hollein nel cortile di Palazzo Pazzi-Quaratesi – tutti gli allestimenti della mostra erano seguiti da Gian Piero Frassinelli di Superstudio.
Va dunque paragonata a Germano Celant la Masini, o meglio il contrario, vista la differenza di età, e infatti il critico e curatore genovese si era laureato proprio con Battisti e a Firenze pubblicò il suo primo libro, Precronistoria 1966-69, con il Centro Di, espressione appunto di un periodo e luogo unici di collaborazione internazionale fra le arti tutte, comprese la fotografia e il design. Masini è stata di certo meno organizzata di Celant, intenta a accumulare pubblicazioni, a coltivare le sue piante, ricevere gli amici più cari come Mauri, Paolo Scheggi, Ettore Sottsass, Fernanda Pivano, Gina Pane e tanti altri fra i suoi gatti – Frassinelli ricorda che si aggirava in casa fra pile di libri alte oltre un metro e mezzo – ed è un bene che tutto il suo patrimonio di libri, carte, quadri e disegni sia ora conservato al Museo Pecci di Prato mentre è un male che il ministero per i Beni culturali gli abbia negato la legge Bacchelli giudicandola espressione di una cultura locale, mentre una schiera trasversale di intellettuali da Natalini a Tomaso Montanari si era battuta per questo, inutilmente. Così come non ha mai fatto distinzione fra i generi artistici non lo ha fatto nemmeno fra quelli sessuali: “Non ho mai voluto organizzare una mostra solo al femminile perché mi sembrava ghettizzante per le artiste. L’unica mostra veramente legittima al femminile è stata, secondo me, quella fatta a Milano nel 1980 da Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia.