Terrazzo
Ridisegnare tutto. Parla Franco Debenedetti
L’Olivetti. Sottsass. In affitto da Agnelli. E l’esperienza dell’Interaction Design Institute
Poche persone si conoscono appassionate di design come Franco Debenedetti: manager, intellettuale, ex senatore. E poi ancora collaboratore del Foglio, dandy, fratello di, fashion victim impeccabile nei suoi completi Prada.
Una vita segnata dall’Olivetti, di cui fu amministratore delegato quando il fratello Carlo De Benedetti (sì, staccato) ne era il padrone. E lì, il nume tutelare di Ettore Sottsass, di cui Debenedetti è cultore: gli ha fatto disegnare le sue case, e compra spasmodicamente vasi Memphis, beato lui, di cui mi manda le foto. Incontro fatale a Ivrea. “Non lo scoprii certo io. Me lo ritrovai in azienda, e ebbi modo di lavorarci insieme. Io ero a capo del progetto Synthesis, i mobili per ufficio, e gli feci disegnare alcune cose. Sono gli anni leggendari della diarchia, Sottsass e Bellini. Poi vidi la meravigliosa casa che fece per Roberto Olivetti, figlio di Adriano”.
Con l’Olivetti Sottsass arrivò fino in Silicon Valley a fare quella di David Kelley, inventore del mouse, leggendario fondatore di Ideo, il più grande studio di interaction design cioè quella branca del design “immateriale” che studia nuove applicazioni tecnologiche e servizi di comunicazione finalizzati a soddisfare i nuovi bisogni che nascono dall’uso della tecnologia. "La scoperta di quel nuovo settore l’aveva fatta a inizio anni Novanta mia moglie Barbara Ghella tra Stanford e San Francisco. Tornò in Italia dicendo: è chiaro che tutti in futuro avranno bisogno dell’interaction design. E mise su una società, perfezionando per esempio la nuova centrale operativa del 113, tramite una serie di automazioni che dovevano rendere veloce la chiamata di emergenza".
"Così a me venne in mente, insieme a Roberto Colaninno, di creare l'Interaction Design Institute, l’unica scuola al mondo che si occupasse solo di quella cosa lì”. Chiama alcuni nomi mitici come Gillian Crampton Smith, massima esperta mondiale del settore, graphic designer inglese che lavorò ad Apple, e Bill Verplank, quello che ha inventato universalmente i simboli di finestra, di cartella, e documento. Tutti a Ivrea. “Portiamo in Italia la cultura della Silicon Valley mediata con quella inglese della Saint Martin”.
Ma con approccio e estetica olivettiani: l’Istituto va a stare nella palazzina blu restaurata ovviamente da Sottsass. “Collegare il design ‘nuovo’ con la gloria Olivetti”. Molto olivettiano anche il metodo: studiare, ma anche viaggiare; in Romagna, per approfondire il turismo balneare. A Brescia, per studiare l’industria bellica. In treno, per studiare un nuovo sistema di viaggi ferroviari. In questo master biennale, corsi tutti in inglese, esperienza unica in Europa, che si ispirava allo Xerox Park in America. “A Ivrea Si parlava già di wearable computer e di social media. I centoventi studenti che avevano frequentato il master oggi hanno fatto tutti carriera in grandi aziende tecnologiche. E da lì nacque anche la celebre Arduino, piattaforma hardware open source”.
L’esperienza dell’Istituto dura pochissimo, si conclude nel 2005, ma “è decisamente la cosa di cui sono più orgoglioso nella mia vita, e quella per cui ho più rimpianti”, dice Debenedetti. "Di non averci provato abbastanza".
Uno che ci provò per tutta la vita era invece il padre Rodolfo, che aveva messo su a Torino diverse imprese tra cui una “Compagnia italiana tubi metallici flessibili". Esiliato in Svizzera, quando tornò, la fabbrica era stata distrutta. Si rimise a vendere tubi. "Ogni tot di tubi che vendeva, ricostruiva un pezzo di capannone”. Si occupò anche di penne stilografiche. “Sì, della Aurora. Il senatore Isaia Levi, fondatore della fabbrica di tessuti che poi diventò la Rivetti, volle mettersi a fare penne stilografiche. Perché si regalano, si perdono e si rompono, sosteneva. E chiese a mio padre di occuparsene, cosa che fece per alcuni anni”. La storia della penna Aurora è fantastica, il Levi godrà di alte protezioni vaticane e alla fine lascerà al Vaticano la sua villa ai Parioli che oggi è sede della nunziatura presso lo Stato italiano. L’Aurora nel dopoguerra torna col modello 88 disegnato da Marcello Nizzoli. Di nuovo il design nel destino.
Ma tra penne e design, dove ci sarebbe bisogno di un bel restyling, di prodotto e di processo, sarebbe nel disgraziato paese. Provoco Debenedetti, che fa le varie cose è anche presidente del Bruno Leoni, il covo dei capitalisti “neoliberali”, come usa dire oggi. Ha anche appena pubblicato un nuovo libro: “Fare profitti. Etica dell’impresa”, appena uscito per Marsilio, trecento pagine attorno a un discorso di Milton Friedman, che nel 1970 sosteneva che un’impresa ha una e una sola responsabilità sociale: fare soldi. Ma come te lo spieghi invece, lo provoco, questo innamoramento tutto italiano per lo stato, questa passione per la burocrazia più barocca? Il sabba della autocertificazione cartacea. Altro che interaction design: sai che il consumo di carta durante il Covid è aumentato del 20 per cento? Dicono si debba ai pacchi del delivery, ma secondo me è per i moduli.
“Ah, non lo sapevo”, dice Debenedetti. E però, come spieghi l’affidarsi sempre più allo Stato in un paese dove lo Stato funziona notoriamente malissimo e di cui nessuno si è mai fidato? “Sì, è un grande paradosso”, dice Debenedetti, “ma in Italia bisogna ricordarsi che c’è stata la presenza del più grande partito comunista dell’occidente. Di qui l’idea peculiare che le imprese private debbano essere sempre piccolissime, oppure, se grandi, sostanzialmente pubbliche”. Ma perché? “A sinistra c’era il comunismo, poi passato attraverso la sua degenerazione in benecomunismo e diventato populismo, infine dilagato come Cinquestelle. A destra però c’era Beneduce con l’Iri”. Però tu che sei un pericoloso neoliberale sei stato senatore tre legislature col centrosinistra. Come la spieghi? “Ma all’epoca c’era l’idea che privatizzare fosse di sinistra. Io andavo a fare la mia battaglia contro l’articolo 18 nelle sezioni dei Ds”.
A questo punto è d’obbligo la fatidica domanda sul cognome. Quale dei due è giusto, attaccato o staccato? “Veramente è sempre stato attaccato. Dal Cinquecento è attaccato. E mio padre sulla porta aveva la sua targa di ottone con scritto: Debenedetti. E’ mio fratello che l’ha cambiato”. Già, fratelli. I Debenedetti abitavano a Torino “in Corso Oporto 23, poi diventato Corso Matteotti, inquilini degli Agnelli”. E’ il celebre palazzo di “Vestivamo alla marinara”. “Gli Agnelli oltre alla loro abitazione davano in affitto due alloggi, uno a noi e uno al senatore socialista Achille Loria”.
Interazioni con la casa regnante: “Umberto a volte mi portava a scuola, al San Giuseppe, con la sua moto Bmw. Moto su cui ci furono ampie discussioni. Erano incerti se comprare la Bmw o una Triumph. Chiesero molti consigli a mio padre che appunto era ingegnere meccanico. Il quale dopo un po’ si spazientì e disse all’Umberto Agnelli ragazzino: senti, io se fossi in te le comprerei tutte e due. E così fu”.
Il destino li avrebbe riuniti più tardi. Quando Carlo esce da ad alla Fiat dopo i famosi cento giorni, e imprevedibilmente Franco rimane. “Io mi occupavo della componentistica alla Gilardini, azienda di mio fratello che era stata acquisita dalla Fiat. Così andai da Umberto e gli dissi che o mi faceva direttore, o me ne sarei andato. Lui, credo, proiettò su di me una certa rivalità tra fratelli, pensò che potesse essere una spinta a far bene”. È stato un po’ sottovalutato Umberto? “Sì, anche lui era un culo di pietra, come me”: in che senso? “Che era uno che si occupava delle aziende, aveva meno distrazioni del fratello”. Tutti e due insomma “con dei fratelli molto più in vista”. Anche a casa Agnelli, però, la presenza fantasmatica di Sottsass che ritorna sempre: l’Avvocato gli aveva chiesto due cose: di fare un po’ amicizia con Giorgio, lo sfortunato fratello che poi finirà in clinica psichiatrica. E poi di disegnargli una una palestra. Sottsass fece solo la palestra.