(Lapresse)

Terrazzo

Una città di pieni e vuoti

Manuel Orazi

La biennale di Hashim Sarkis e di Roberto Cicutto propone risposte diverse e lontane alla domanda "come vivremo insieme". L'Italia? Sembra vivere di hashtag

Horror vacui, horror pleni, e il gioco è fatto. Nella Venezia incantevole vuota di turisti, ma piena di architetti, designer, curator, giornalisti di settore, il Covid è già alle spalle. Nei bar e ristoranti tornati umani forse è fondato l’ottimismo di Hashim Sarkis e di Roberto Cicutto, che ha creduto nella riapertura: come vivremo insieme? Vecchia domanda modernista che riecheggia quella analoga di Sigfried Giedion, anche lui professore a Boston come l’attuale direttore libanese, Architecture, You and Me (1958): cosa lega me e te nelle città? La risposta non è univoca e di certo non scontata, specie dopo la pandemia dell’anno uno dopo Baratta.

 

Come sempre le risposte sono state diverse, oscillanti fra troppo pieno e troppo vuoto tra i padiglioni nazionali sparsi fra i Giardini e l’Arsenale, con alcuni debutti come il concettuale Uzbekistan affidato agli svizzeri Christ & Gantenbein che hanno rappresentato un quartiere storico della capitale Tashkent in modo concettuale, come una Dogville tridimensionale, tendenza vuoto. Vuotissimi i padiglioni della Germania, spettrale solo con i suoi QR code; Australia, ermeticamente chiusa (entrambi questi sono praticamente solo online) e Francia, con le sue sbracate grigliate in canottiera fuori dai grands ensembles ristrutturati dai Pritzker Lacaton&Vassal. Pieno invece di plastici color pastello il Belgio, di carte riciclate la Spagna, di ascetici modellini territoriali la Svizzera, di rudi infografiche e sofisticati report ecologici Israele o, più banali, il Brasile. Gli Usa risolvono i milioni di dollari spesi in ricerca nelle loro Ivy League in una struttura di legno come quella dei mormoni in Lo chiamavano Trinità (1970).

 

 

La sostenibilità, l’emergenza ecologica, la ricerca di alternative ambientaliste restano le istanze generalizzate di tutta la mostra. Le molte installazioni tecnologiche del padiglione centrale e dell’Arsenale, fondate su materiali innovativi composti da scarti come la fibra sono forse dispiaciute a Rafael Moneo, Leone d’oro alla carriera e maestro di Sarkis, che continuava a scuotere la testa – dicono –, poco avvezzo al nuovo mood da museo della scienza globale che la ricerca ha intrapreso, specie negli Usa.

 

Non mancano però proposte stimolanti, quelle né troppo vuote né troppo piene come l’Olanda con aeree architetture tessili, Taiwan con le capanne sospese presentate nelle affascinanti e casanoviane prigioni di San Zaccaria, l’adorabile Cile che rappresenta Santiago allestendo una quadreria di ex voto contemporanei, ma soprattutto il nostro preferito cioè l’Argentina di Gerardo Caballero che, seduto in disparte, ti spiega in un minuto il senso di questo padiglione fatto di case popolari, antiche e moderne: “La nostra non è un’architettura prentenciosa, è semplice e in serie, come i mattoni in un muro, e non solo quella della capitale, ma anche di città considerevoli come Rosario o Cordoba, dove il rosa prevale non perché sia un colore carino bensì perché nasce dalla miscela di calce bianca e sangue di animale, ed ecco allora la Casa Rosada, ma anche il concetto spaziale rosa di Lucio Fontana (nato qui) e le cartoline che Cherubino Gambardella mi ha mandato in onore di Clorindo Testa, il maestro assoluto argentino (nato però a Napoli)”.

 

Pretenzioso, all’opposto, è il Padiglione Italia “Comunità resilienti”, che non si accontenta di scegliere un tema, ma vuole piuttosto dimostrare di saper fare tutto con un’aggravante: la contestazione istituzionalizzata è diventata più uno strumento di autoaffermazione che l’espressione di una volontà di cambiamento. Il risultato è una Biennale parallela e velleitaria, in due stanzoni scuri riempiti come un uovo di name dropping, scritte sconclusionate sotto un’estetica ormai storicizzata come il cyber-punk, che va dalle Dolomiti all’abusivismo costiero, dallo “Health and wellbeing” all’antisisimica, dal femminismo ai migranti, dalle Università ai centri storici fino alla sezione “sud globale” che riesuma la “frittura globale totale” lanciata dal mitico Felice Caccamo di Teo Teocoli. Chi troppo vuole, nulla stringe: è bene che la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Mibact lo tenga a mente per la prossima volta.

 

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