TERRAZZO
Carta canta
La mostra a Milano dedicata a John Baldessari e Sol LeWitt sull'arte concettuale. Opere su carta, dove la ripetizione sembra diventata ossessione
In un palazzo di piazza San Sepolcro, a Milano, salendo lo scalone di marmo rosso, si vede la faccia occhialuta di John Baldessari che proiettata sul muro canticchia – un po’ Allen Ginsberg un po’ Daniel Johnston – le 35 “leggi” di Sol LeWitt sull’arte concettuale. “Penso che queste frasi siano rimaste nascoste troppo a lungo tra le pagine dei cataloghi delle mostre e, forse, cantarle per voi potrebbe restituire a queste parole una platea più ampia”, dice l’artista. La cantilena di stampo pubblicitario, il jingle, l’inno, allarga il pubblico. Da sempre la musica è più pervasiva della scrittura. L’ha fatto Battiato con Gurdjieff, parlare di quarta via col pop. Sappiamo bene che in Omero e nei testi sacri il metodo più efficace per veicolare e ricordare un contenuto è il ritmo, la ripetizione. Ripetizione, come quella della frase-mantra “I will not make any more boring art” che Baldessari ricopia più volte come un Bart Simpson alto due metri. Eccone le riproduzioni appese su una carta da parati azzurra con patate e lampadine nella prima sala della mostra “From print to song” alla Galleria Tommaso Calabro. Intorno, opere su carta, dove la ripetizione sembra diventare ossessione, spazi vuoti perfetti nelle opere degli anni Settanta di LeWitt che spesso son prodotte in un solo giorno, riga dopo riga. Metodo e ripetizione. Poi carta nuda piegata che diventa opera, il folding al posto dell’inchiostro. I suoi Incomplete Open Cubes e gli studi per i Wall Drawings stanno benissimo col pavimento di legno intarsiato di inizio ’800 con figure quadrate. Se lui gioca con la geometria, Baldessari lo fa con le parole nei suoi dittici fotografici (natura/morte, acqua/elefanti).
La scelta di un percorso cronologico mostra le evoluzioni e invita a trovare contaminazioni. “Un dialogo” l’ha chiamato Paola Nicolin, che ha curato la mostra. Baldessari, in un’intervista a David Salle, diceva: “L’arte è una conversazione con altri artisti”. Sembrano rappresentare le città che li hanno accolti, uno a New York, LeWitt, più freddo e metodico, l’altro a Los Angeles, Baldessari, con quell’aria un po’ da vecchio hippy. Lower East Side, ashkenaziti e basketball, da una parte, Venice Beach, acidi e pattini a rotelle sul lungomare dall’altra. LeWitt si è messo alla ricerca di “una struttura concettuale che produce variazioni di segni”, l’altro “ha sempre inventato nuove possibilità narrative manipolando le immagini trovate”. Come i cerchi colorati sulle facce o il gigantesco dittico nell’ultima sala: da una parte uno still cinematografico di un volto femminile e a destra, pitturata in maiuscolo, la parola KIND. “Quello è il più caro”, dice al Foglio il gallerista, look da wunderkid Silicon Valley, sneakers e Apple watch. Nonostante il feel da museo, dato dalle modanature e dalla vista sull’Ambrosiana, siamo in una galleria, è tutto in vendita. I prezzi delle opere vanno da poche migliaia di euro al costo di un trilocale in Porta Venezia. “E’ difficilissimo trovare dei Baldessari in Italia”.