Terrazzo
Cartoline da Patmos
Da David Bowie a Carrère (che non va più causa divorzio), l’isola greca è diventata la nuova Capalbio globale (ma senza cuccia)
Tanti italiani, greci ricchi e soprattutto francesi – la presenza di tedeschi e austriaci a Patmos si vede soprattutto dalle pile di tascabili gonfiati dalla salsedine impilati nelle hall degli hotel: Agatha Christie, Yanagihara, Clive Cussler, o dai cartelli che raccomandano di non gettare la carta nel wc. Gambe di tavoli si incastrano tra i sassi – vietato raccoglierli e riportarli a impolverarsi a casa vicino alle bottiglie di vetro piene di sabbia de l’Île Rousse o di Budelli – con tovaglie di carta plastificata con la sagoma dell’isola, tutto su toni di blu e azzurri, sedie, menu, infissi. Donne in sottili abiti di Lisa Corti con golden retriever fulvi spizzicano pescetti nella veranda di casa sotto le tamerici – han fatto volare le domestiche filippine da Prati o Conciliazione. Standard divorcée botulinate coi figli rimasti a casa, uomini in polo dall’allure papponesca fanno il cambio d’abito post cena – “tanto si mangia una sciocchezza in taverna” – tornando in albergo e poi uscendo freschi per i party su nella città vecchia. Incontri generazionali sui benefici dell’Ayahuasca tra i lettini del resort 5 stelle di Gricos. “Ieri sera girava di tutto, ho conosciuto questo che cresce i suoi funghetti”.
Figli della Roma-Milano benissimo tutti splendidi e annoiati che scendendo dalla barca e dicono “ci vediamo in piazzetta dopo cena, beh non prima delle due”. Ma non è tutto così da commedia vanziniana, ci sono anche accademici italiani di Yale e Columbia che vanno in paddle board. E poi i soliti gruppetti di habitué che non vedono l’ora di chiederti se è la prima volta che vieni per poterti dire: “Ah, no, io vengo da cinque anni”. Conoscono i baristi per nome e usano qualche saluto greco. “Belli quei pantaloni, li hai presi qui?”. “No no, a Panarea”, risponde l’altro quasi offeso. Eppure le boutique qui sono chicchissime come ormai nemmeno nelle isole campane, vittime dei brand monomarca. Gioielli in stile bizantino, cotoni leggerissimi, ceramiche in display da museo. “Col casino che abbiam fatto in Afghanistan è sceso il valore del dollaro, dovevo comprarlo due settimane fa” si lamenta una turca-americana di Houston, Texas guardando un piattone splendido decorato con delle sardine. In pochi luoghi al mondo si incontrano barche di così rara eleganza, legno e ottone e il profumo di vernice nautica si sente da lontano nuotando. Fiancate blu, velieri kennediani a quattro alberi, poche le tamarrate ipertecnologiche, quelle che ci sono comunque in carbonio, con futuristici oblò panoramici a prua e tender neri da incursione notturna, un paio di quei surf elettrici da film Marvel. Una famiglia di armatori greci – che cliché! – che si fa portare dalla crew in gommone sulla spiaggia le sdraio e le sedie da regista monogrammate con cuscini Versace e gonfiabili per i bimbi, e poi smonta tutto quando loro han finito di fare il bagnetto.
L’altro giorno Dagospia bollava Patmos come una nuova Capalbio greca solo perché giracchiavano tra il porto e i caffé un po’ di volti noti italiani, moda vecchia guardia, presidenti di San Patrignano, il babbo di Lapo e Yaki. La vera notizia, mi scrive un amico, è che Miuccia Prada e Bertelli fanno vacanza insieme. Ma per i Bonaccorsi, i Clavarino e i Beccaria, Patmos è solo una delle tante tappe delle estati lunghissime dei trust fund kids, dopo Eolie, Tonnara di Scopello, Porto Rotondo, Capri, Gstaad. Mai listoni di vip da tabloid internazionale ci fanno arrossire, qui ci veniva David Bowie già negli anni 80 e, a quanto pare, han comprato villoni Tom Hanks, Julia Roberts e Richard Gere, holy-trinity della rom-com 90s. “Perfect for meditation” dicono negli annunci. Ma non c’è una vera e propria agenzia, bisogna parlare o con Lucas o con Giannis. “I compratori con quasi tutti francesi, alcuni belgi e qualche italiano”, dice al Foglio Giannis – un omone con Apple watch, air pods e borsello a tracolla – “Io dico, se vuoi investire in Grecia, devi investire a Patmos. Nonostante la crisi economica qui i prezzi han sempre continuato a salire”. Apre un cassetto e mi fa vedere una pila di cartelline nere. “Sono tutte proposte di acquisto dell’ultimo mese, e poi con lo smart-working la gente potrà venire qui in inverno”. Non vuole sbottonarsi sulle star di Hollywood che abitano qui, “alcuni sono miei clienti, non posso dire niente”. Gli chiedo dei grossi appezzamenti di terra scoscesa che si vedono ogni tanto con ville mezze costruite, scheletri di case vacanze abbandonate, esempi di non finito greco. “Riprenderà tutto in autunno, sono solo rallentamenti per il Covid”. Quando uso la parola lusso dice, “certo, ma non direi proprio lusso, ma non siamo mica a Mykonos” e fa una smorfia sdegnosa. In effetti qui, nonostante i relais e il ristorante vegano con vibe terzomondista, si riescono a mangiare orate e triglie appena pescate con meno di quindici euro. Questo misto chic-sauvage sembra ormai introvabile in Italia dove appena si subodora la presenza di celebrities e turismo vagamente luxury i prezzi degli aperitivi triplicano.
Non ci sono rovine qui, niente di eziologico o di omerico, nemmeno una colonna marmorea spezzata, i segni di un tempio in un’area archeologica protetta, niente che gli inglesi avrebbero potuto rubare e infilare nel British. Solo spiagge tutte diverse, la labirintica Cora e poi la grotta dove San Giovanni Teologo ha scritto uno dei best seller della cristianità, il libro dell’Apocalisse. Uno dei nomi più comuni degli autoctoni è appunto Theologos, abbreviato in Theo. E poi c’è Carrère. O meglio c’era. Parla dell’isola anche in Yoga. Un amico si è letto l’opera omnia del francese prima di arrivare qui, poi “ho scoperto che non viene più perché la casa era dell’ex moglie e se l’è tenuta col divorzio”.
Ci sono tantissime chiesette e cappelle, bianche come le case, sparse tra le colline e le baiette. In questi giorni c’è il festival di musica sacra ed è l’occasione per celebrare in musica i duecento anni dell’indipendenza ellenica. Il direttore d’orchestra cita Byron. Da certi punti dell’isola si vede la costa ottomana e le bandiere degli yacht turchi sembrano sempre più grosse di quelle delle altre barche, solo da poco hanno riaperto i confini. Troppo facile e inutile creare un contrasto sacro/profano, party/messa ortodossa, boutique/cappella che piace tanto ai moralisti. Per loro la soluzione l’aveva già trovata Hölderlin che nel suo poema Patmos del 1808 a un certo punto mescola l’ultima cena con un festino dionisiaco. “Dio è vicino. / Eppure difficile da raggiungere”, scrive.
I traghetti da Rodi ci mettono quasi cinque ore ad arrivare qui. “Vorrebbero aprire l’aeroporto”, dice un barcaiolo di un servizio gommoni che ti porta alle spiagge irraggiungibili di ciottoli bianchissimi, offrendo sashimi experience a bordo. Mezza schiena è coperta da un tatuaggio di Yoda che usa la forza, indossa finti Oakley specchiati, “ma un aeroporto l’hanno costruito qui di fronte, a Leros e quest’anno è stato usato solo per diciannove persone, sarebbe meglio potenziare quello e lasciar perdere qui. Ma alcuni vogliono sempre più turisti” e mi fa il gesto dei soldi con la mano. Però c’è l’eliporto, e una ragazza a colazione mi dice: “Se ci pensi non è nemmeno così caro, si risparmia un sacco di tempo”. E alcuni lo usano, anche solo per un carpaccio in piazzetta e una visita a qualche amico che ha comprato qui la casa. “Sento le pale dell’elicottero, arrivano i Rossi per la cena”.