Terrazzo
L'altra Nanda
Vita e opere di Nanda Vigo (1936-2020). Una mostra la ricorda alla Fondazione Sozzani di Milano
Alla fondazione Sozzani in corso Como ecco una piccola interessate mostra su Nanda Vigo, una delle meno note designer italiane anzi milanesi, mancata l’anno scorso. Nata nel capoluogo lombardo nel ‘36, studi in Svizzera, École polytechnique a Losanna, poi Stati Uniti. Amica di Fontana, di Castellani, di Gio Ponti, compagna di Piero Manzoni, Vigo era figura molto atipica. Cosmopolita e radicale, predicava un universalismo delle arti e un’organicità tra design e architettura. Spazialismo e spazio, psichedelia e sci-fi erano i regni del suo immaginario d'eccezione, il suo logo che campeggia ancora nel suo (bel) sito Internet del resto è l'Enterprise di Star Trek.
Le sue case, piccoli monumenti-enterprise inzeppati di pezzi dei suoi amici Fontana e Castellani, e un design molto “post”: la Zero House o la Casa Gialla a Milano, o la “Casa sotto la foglia”, piastrellata e pelosa, fatta con Gio Ponti a Malo (Quello di “Libera nos a Malo” di Meneghello, dunque Veneto profondo); la casa-museo bianca piastrellata pure quella e tonda, un po’ piccolo Guggenheim per l’artista Remo Brindisi, vicino Ferrara: sempre e comunque un’estetica da nightclub raffinatissimo per committenti coraggiosi.
Celebre nella sua bolla e nei peggiori bar di Brera, un po’ meno fuori, in mostra alla Fondazione Sozzani oggi i suoi arredi molto futuribili, con quegli interni tutti specchiati visti (e utilizzati, infatti) in molti film. Sgabelli pelosi, sedute d’acciaio inossidabile, e specchi di ogni foggia, altamente instagrammabili e dunque oggi magnificamente attuali (con metafora: in uno, se ti avvicini troppo, non ti vedi più). E poi ancora: la lampada Golden Gate, fantastica provocazione nella città delle Arco e del neoclassicismo castiglioniano, mentre qui si utilizzavano già i Led, allora tecnologia militare americana, nel ’69.
Sedie di acciaio e peluche, e l’ambiente "cronotipico", uno scrigno scintillante (dal greco chronos e topos, vale a dire “tempo-spazio”. “Attraverso l’uso di materiali industriali come il vetro e l’alluminio, le opere si pongono come filtri visivi della realtà in cui siamo immersi". "La percezione comune che abbiamo del reale", dirà, "è in questo modo alterata, mutata in maniera incerta, affinché possiamo vivere impressioni inedite e impensate". Era riuscita a vedere la mostra che Palazzo Reale nel ’19 le aveva dedicato.
Barbara Radice l’aveva ricordata così: "Nanda Vigo non tornerà questa volta da uno dei suoi tanti viaggi grandi e lunghi. Non c'è più, all'improvviso. Vigo è stata una delle pochissime italiane che ha frequentato l'arte accanto a Fontana, Manzoni, Castellani, il gruppo dei giapponesi con Domoto, quello dei tedeschi con Otto Piene, a cominciare dai primissimi anni Sessanta. La più internazionale di tutti per via della sua cultura (spesso insospettabile, non ne menava vanto), personalità polemica ma intimamente gentile. Così la ricordo, e anche bella, acuta e sapida”. Per Hans Ulrich Obrist “lo studio di Nanda Vigo era un'opera d'arte totale, un Gesamtkunstwerk. Mi ha raccontato quando da bambina è stata evacuata a Como insieme alla famiglia e, camminando, si è ritrovata di fronte alla Casa del Fascio di Giuseppe Terragni: in quel momento, a sette anni, vede il vetrocemento, la luce naturale, artificiale. Vede, da bambina, infinite possibilità."
Gran viaggiatrice, aveva fatto uno stage perfino da Frank Lloyd Wright, sia a Taliesin che nella più urbana San Francisco, trovandolo assai deludente in entrambe le location (“ho scoperto un architetto arrogante e presuntuoso, a parte la 'Casa sopra la cascata' che ci aveva tutti infervorato, ma ho scoperto che i suoi progetti erano solo un proseguo della secessione viennese. Insomma un déjà-vu”, ha detto l’anno scorso ad Harper’s Bazaar). Era a suo agio anche e soprattutto in Africa. Aveva una casa, come molti cumenda che forse non si sarebbero mai fatti fare una casa da lei, a Malindi.