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Terrazzo

Alitalia fashion style

michele masneri

Mentre la compagnia di bandiera cambia nome, viaggio nelle sue eleganze perdute,  dalle uniformi  al presidente-conte Carandini

Mentre l’Alitalia sprofonda nel cupio dissolvi (cancellati 140 voli per gli scioperi, arei a terra, disperazione generale degli utenti), dopodomani la compagnia di bandiera non esisterà ufficialmente più, e si capisce che l’addio sarà sgangherato come spesso è stata la gestione.

E però è arrivato il tempo di fare i conti con un’eredità, se non manageriale, estetica. Già, il marchio non ci sarà più, ma il resto rimarrà tutto com’è (esiste qualcosa di più gattopardesco?), il timone, la livrea, se ne andrà solo quell’acronimo – che i soliti stranieri avevano subito declinato: “always late in take off, always late in landing”, sempre in ritardo, insomma, c’è tutta una storia anche del Paese. Anche, di quando Roma era capace di fare branding ed eleganze, senza complessi di inferiorità con Milano (forse perché sapeva, presentiva, che non sarebbe mai stata efficiente come vettore, la compagnia puntò da subito sullo stile).

 

Il primo presidente fu il conte Carandini, dunque migliori eleganze antifasciste, "Corriere della Sera", una forma di royalty unica, tra doppipetti, residenze poi Agnelli di fronte al Quirinale, tenute a Torre in Pietra, correlativo oggettivo delle tenute Crespi in Lombardia, ma vicino al mare e senza zanzare. Presidente per vent’anni, dal 1948 al 1968, anni del boom e degli sviluppi transatlantici: la compagnia era nata solo nel 1946 con un volo Torino-Roma pilotato dal comandante Virgilio Rainero, ma già nel 1960 col trasferimento dell’hub dalla troppo piccola Ciampino a Fiumicino la Alitalia-Linee Aeree Italiane, contribuiva ai fasti del dopoguerra.

 

Carandini era già stato primo ambasciatore a Londra dopo la guerra disastrosa, a rappresentare l’Italia impresentabile, e proprio per questo fondamentale; “col suon fascino personale e l’eleganza d tipo anglo-internazionale”, suscitò “comprensione, addirittura parole di simpatia, e ben presto si stabilirono in privato numerosi rapporti di autentica amicizia” (Edgardo Bartoli, Milord. Avventure dell’Anglomania italiana, Neri Pozza). Arredò i locali dell’ambasciata con un po’ di pezzi dagli Uffizi e qualche dipinto della collezione Savoia, e quando, dopo parecchio tempo, il sottosegretario agli Esteri Lord Curzon si degnò di fare visita alla legazione italiana, preparato a trovarsi di fronte umani brevilinei baffuti, e trovandosi invece di fronte il perfetto gentleman con occhio ceruleo e maniere comitali, disse solo: impossible!

Carandini, poi, tornato a Roma, non solo guidò elegantemente la compagnia di bandiera ma partecipò alla fondazione di quel covo di leggende in grisaglia che era "il Mondo", di cui fu collaboratore e poi azionista (e l’Alitalia era una delle poche compagnie ad avere diritto di pubblicità sul leggendario settimanale, scelta che poi portò al fallimento il magazine). 

 

Oggi "Domus" omaggia e analizza le scelte estetiche della compagnia negli anni: già nel 1960, Alitalia agiva come una specie di Salone del mobile viaggiante. Per i suoi Douglas DC-8, gli interni di Ignazio Gardella prendevano le distanze dai toni pastello delle compagnie anglosassoni, come la celebre Pan-Am, per proporre “pochissimi colori, di toni caldi, e materiali quali il cuoio e il legno, quasi a creare l’atmosfera di un club; il pavimento è coperto da un tappeto verde scuro, le pareti, fino all’altezza del portabagagli, son rivestite in pelle naturale, le poltrone in pelle più scura; le pareti trasversali sono in legno color caffè, la volta, bianca, rompe l’effetto dello spazio a botte.” A bordo c’erano anche quadri di artisti contemporanei, come Guttuso, che erano anche in vendita (con un’idea di boutique di bordo molto avanzata). Un claim recitava: “I pittori italiani contemporanei collaborano con Alitalia per rendere più attraente il vostro volo”.

 

Poi gli uffici: il terminal milanese venne progettato da Gio Ponti nel 1960. “L’architetto è ricorso, come  leit motiv di colore, all’azzurro che caratterizza la nostra Compagnia aerea, e come leit motiv di materia, alla ceramica, nel totale rivestimento delle pareti in elementi di terracotta di Melotti e smalti biancoazzurri”, riporta Domus dell’epoca. Anche a New York: l'ufficio Alitalia (foto) fa il paio con quello Olivetti in quanto a  italianità da concorso. A Roma invece sono gli anni in cui l’ingegnere Morandi, un Capucci del calcestruzzo, celebratissimo stilista di grandi opere cementizie in tutto il mondo, fa Fiumicino, i suoi hangar e i suoi viadotti (prima che il suo nome diventasse, ma mica per colpa sua, sinonimo di tragedie autostradali).  

 

E poi le divise, naturalmente: che costituivano “capsule” collection involontarie a testimoniare il gusto di un paese che cambia: prima Sorelle Fontana; poi Delia Biagiotti, mamma di Laura; poi Tita Rossi; poi Mila Schön, poi Balestra, poi Armani e Ferretti. Ma le uniformi Alitalia costituiranno alla fine anche una specie di sismografo dell’instabilità italiana, pronte a cambiare rapidamente al cambio del costume e del padrone, con gonne che si accorciano e si allungano, dalle minigonna con stivali in pelle di Mila Schön fine anni Sessanta fino ai berretti e alle calze coprenti della stagione terminale degli emiri Etihad.

 

Il logo e la livrea però non era né milanesi né romani ma californiani, di San Francisco. Ci pensò la Landor Associates, oggi colosso in 43 paesi, fondata da un tedesco, Walter Landor, vero nome Landauer, che come molti scappò dal nazismo e contribuì all’estetica americana; si stabilirà in California e tra i vari progetti, a bordo del suo ufficio su un vecchio piroscafo nel porto californiano, inventerà nel 1967 la scritta e nel 1969 quel triangolo tricolore di coda che con piccoli restauri è stato in vigore fino ad oggi (il bavarese Landor, padrino della grafica mondiale, disegnò non solo le principali linee aeree, ma anche i cereali Kellog’s, la Montedison, le sigarette Marlboro, la Levi’s, la Coca-Cola. E persino il Wwf). 
 

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