Terrazzo
Mezzo secolo Fuori
Cinquant'anni del movimento ma anche della rivista fondata a Torino nel 1971 da Angelo Pezzana
Correva l’anno 1971: e partiva la gloriosa avventura del Fuori. Gruppo e rivista: e oggi i primi 13 numeri sono riuniti e riassunti in un oggettone XL da cavalletto, da centrostanza; un librone edito da Nero che arriva in una lussuriosa borsina di jeans Levi’s, sponsor dell’operazione. Curata dal poligrafo Carlo Antonelli e dal collettivo Francesco Urbano Ragazzi ecco questa raccolta oversize di quello che fu movimento ma anche, come capita spesso, rivista. Il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano fu fondato appunto cinquant’anni fa da Angelo Pezzana, già libraio sofisticato a Torino, che ricorda che sulla R si discusse molto. Si era tutto sommato nella capitale Fiat degli anni Settanta per cui “rivoluzionario” evocava brutti presagi, ma alla fine R fu.
Tutto nacque, è ormai storia, dal famoso articolo sulla Stampa di uno psichiatra che parlava dell’omosessualità scambiata per disturbo narcisistico, “L’infelice che ama la propria immagine”, e alla richiesta di rettifica o di discussione venne risposto sgarbatamente, “ma per carità, se ne parla anche troppo”, e così nacque il fronte, Fuori come out e coming out, ma fuori anche e soprattutto dai partiti: “per la destra eravamo degli sporcaccioni, per il centro clericale dei peccatori, a sinistra ci dicevano che la dittatura proletaria avrebbe risolto ogni problema”. La caccia ai (inserire epiteto con sfumatura regionale) era diffusa come uno sport di gruppo, nell’Italia delle crisi petrolifere. Nella bella provincia si andava a caccia di omosessuali preferibilmente nei luoghi di battuage, possibilmente armati di mazza, ferrata o no.
E lì l’idea geniale dei fuoristi di distribuire il giornale proprio in quei luoghi agresti (con feedback diversi: la maggior parte rispondeva: “Ma non vedi che sono qui per scopare? Che me frega di leggere il tuo giornale?”). Ma poi servì, si crearono una quarantina di avamposti nelle principali città italiane, si diffuse il verbo. Il business model era originale, simile a quello di tante case editrici odierne: non importava vendere tutte le copie o arrivare a un bilancio in pareggio, bisognava piuttosto occupare tutto lo spazio disponibile, colpirne cento per educarne uno, così il giornale aveva tirature altissime, anche ventimila copie, che poi in gran parte diventavano resi, ma poi le poche che si vendevano andavano a segno.
Business model garantito grazie a due amici appartenenti a “famiglie torinesi molto in vista” che non vollero mai dire il loro nome e “non gradivano l’esposizione mediatica”, e qui giù illazioni, perché era tutto un mondo sotterraneo, ancora, quello dell’Italia dei primi anni Settanta, era l’Italia raccontata da Arbasino, quella in cui siccome non c’erano mai state leggi contro la sodomia come in paesi dissoluti tipo Gran Bretagna non era perché qui si fosse particolarmente progressisti, ma al contrario perché non si poteva nemmeno concepire che il virile maschio italico potesse subire il fascino del signorino. Dunque, se la cosa non si nomina, non c’è e basta, e «dove mancava il Vocabolo, e dunque il Concetto, e a maggior ragione la Cosa; in trattoria e in carrozza e in barca anche con dieci in divisa, e la gente non vedeva o pensava al massimo che erano i dieci figli del tuo giardiniere, maschi maschissimi indaffarati a parlar di virilità l’uno sull’altro, me l’hanno assicurato tutti i superstiti» (“Fratelli d’Italia”).
Era il Paese sotterraneo dei “balletti verdi”, quello dei “Complessi”, con l’onorevole democristiano impersonato da Ugo Tognazzi, lo strenuo difensore della moralità, che si ritrova implicato proprio in uno di questi party nel profondo Veneto, pre-Morisi. La caccia non era solo all’omosessuale da percuotere nei parchi ma anche a quello da ammazzare politicamente: Emilio Colombo, certo, il più noto, galantuomo del sud, ma anche Cesare Merzagora, “un democristiano molto colto che doveva diventare presidente della Repubblica”, ma venne fermato da un rapporto della Buon costume che sosteneva essere “un invertito”. E poi il comunista Pietro Secchia, chiamato da Togliatti “la secchia bucata”, questo il clima che si respirava.
E a Sanremo nel ‘72 il famoso convegno di psichiatria a cui Pezzana e i suoi si presentano, regolarmente iscritti, per bloccare l’accesso ai medici. Dopo il famoso articolo, e per contrastare l’idea che l’omosessuale fosse un malato: tra l’altro, malattia indicibile. “Non posso scrivere la parola omosessuale in un articolo", disse un giornalista presente. “Perché mai?” “Perché non l’ha mai scritta nessuno”. “Lo faccia lei, sarà il primo”. E così fu. La storia di Pezzana e del Fuori è anche una storia di grande civiltà e tecnica manifestatorie, sia rispetto alle rivolte del tempo, violente e politicizzate e “di classe”, sia rispetto a quelle straccione di oggi, dei Puzzer (che nome!) che fanno i gradassi e poi piagnucolano, dei no vax che assalgono i sindacati a porte vuote e le dottoresse inermi nella metropolitana, insomma è una storia anche di stile.
Editoriale, sicuramente: la rivista è un concentrato di trovate modernissime per l’epoca. Niente nudi, come da ispirazione alla “Gay Sunshine” americana, o del “Fléau Sociale”, il flagello sociale francese che analizzava anche i profili storici della questione, e poi semmai tante vignette, interventi di Fernanda Pivano, di Allen Ginsberg. E lettere, tante lettere di militari, operai, insegnanti, tutti nascostissimi e un po’ stufi di esserlo in un paese onestamente convinto che solo i parrucchieri o Pasolini potessero far parte “di quelli là”. In fondo, se Piero Angela oggi è sulle identiche posizioni di Pezzana, "gli omosessuali hanno subito anni di oppressione", il Fuori ha fatto centro (e ora Pezzana chiede e propone che Torino diventi sede di un museo italiano dell’omosessualità. Però devono far presto, o arriveranno come al solito prima i milanesi).