Foto: Florian Wehde

Terrazzo

Atlante berlinese

Manuel Orazi

Rovine nuove e antiche della capitale tedesca secondo un architetto italiano

Ci sono città piene di rovine, non solo concretamente esistenti, ma anche rimosse, ristabilite, ripensate in grado di ipnotizzare e ossessionare gli architetti che le studiano troppo da vicino. È questo il caso di Conrad Bercah, Berlin transfert. Un atlante di idee estetiche (Lettera Ventidue, euro 18), architetto milanese ma attivo nella capitale tedesca che ha pubblicato ora il secondo atto di una trilogia in corso dominata da quello che Antonio Prete avrebbe definito il “demone dell’analogia”.

 

Il volume precedente si intitola infatti Berlin fragments. Lo sforzo di Bercah, come nota Valerio Paolo Mosco nell’introduzione, è stato quello di leggere alcuni aspetti del lavoro di tre uffici di colleghi berlinesi – brandlhuber+ (b+), Kuehn Malvezzi, Bruno Fioretti Marquez (BFM) – per ordinare, attraverso il transfert analogico, degli appunti estetici applicati alla forma architettonica e verificare come essi possono evocare l’anima di una città. In altre parole si tratta di una lettura critica del lavoro altrui al fine di un riordinamento esistenziale.

L’analogia, oggetto di studio da parte di Aldo Rossi negli anni 70, è demoniaca perché chi la scomoda rischia di impazzire, vedendo analogie dappertutto come Aby Warburg – non a caso internato a lungo in un sanatorio. Bercah ha prodotto dunque dieci tavole, analoghe a quelle del progetto warburghiano rimasto incompiuto, Mnemosyne, colme di analisi da close reading e di riferimenti architettonici illustri dal classicismo di Karl Friedrich Schinkel alle opere più recenti di Ludwig Mies van der Rohe, “Dieci idee estetiche governano le dieci tavole: esse possono essere considerate il resoconto del transfert, ma a posteriori mi rendo conto che non corrispondono ad esso: lo travalicano in quanto la natura dell’analogia è quella di andare sempre oltre ciò che propone. È il suo limite, è la sua grandezza”. Aveva scritto Schiller: “Il poeta antico viveva un rapporto ingenuo con la natura, con cui si trova in immediata comunione. Quello moderno instaura con la stessa un rapporto sentimentale, perché ricerca continuamente la scaturigine di quel rapporto”.

 

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