Tullio Pericoli, Combinazioni, 2012, olio su tela

Terrazzo

Il segno e il territorio. Da Steinberg a Pericoli, due mostre da non perdere

Manuel Orazi

Due artisti cosmopoliti e legati all’Italia: Saul Steinberg in Triennale e Tullio Pericoli a Palazzo Reale. Milano e le Marche a contatto

L’estate di San Martino novembrina ha regalato a Milano una ricca serie di mostre, a volte correlate fra loro come quella del Realismo magico e di Mario Sironi oppure, ancor di più, quella di Saul Steinberg alla Triennale e di Tullio Pericoli a Palazzo Reale. Le analogie fra i due artisti sono numerose, ci furono contatti epistolari diretti nonché una comune riconoscenza verso Cesare Zavattini in epoche e per motivi diversi – Steinberg collaborò al milanese “Bertoldo” diretto dallo scrittore emiliano, Pericoli lo incontrò giovanissimo a Roma ricevendone un suggerimento decisivo: quello di trasferirsi a Milano. Steinberg e Pericoli sono stati disegnatori prima che artisti, collaboratori di giornali prima che di gallerie e musei, per questo hanno sempre parlato del proprio lavoro con un certo understatement; oggi però entrambi sono pubblicati da Adelphi. Il punto sostanziale dell’analogia però sta nel fatto che, visitando la mostra nella curva della Triennale al primo piano, si ha l’impressione che Steinberg non abbia mai veramente lasciato Milano.


Analogamente, visitando “Frammenti” (fino al 9 gennaio, catalogo Skira a cura di Michele Bonuomo) si può pensare che, in un certo senso, Pericoli non abbia mai lasciato veramente le Marche. In un libretto recente, Incroci (Adelphi, 2018), l’autore ascolano scrive che quello del rumeno non è “un segno e basta, ma un minuscolo essere vivente, con le sue ansie, le sue nevrosi, i suoi momenti di felicità e di disperazione” dal quale ha imparato molto. Lo stesso giudizio si potrebbe applicare ora allo stesso Pericoli, in particolare ai suoi paesaggi, il genere pittorico oggi desueto sul quale è tornato a insistere da molti anni: in queste vedute marchigiane c’è qualcosa di vivo e perciò incessante che non è solo memoria d’infanzia (come ogni forma d’arte secondo Hermann Broch), ma qualcosa d’altro. È stato infatti un paesaggista come Gilles Clément a puntualizzare che “il paesaggio è ciò che si vede dopo aver smesso di osservarlo” e possiede dunque una natura esistenziale. Ecco perché le serie pericoliane più recenti, “frammenti”, appunto, e “sul farsi”, mostrano un processo di intima reinterpretazione continua dei segni materiali del tutto artificiali che caratterizzano il laborioso territorio interno marchigiano che è naturale solo in parte. Sono infatti i secolari lavori di bonifica, coltivazione e manutenzione fatti a mano e fatti bene ad aver formato l’immagine paesaggistica delle Marche, non solo in Pericoli, ma anche per i suoi predecessori illustri come gli incisori Adolfo De Carolis, Luigi Bartolini, Arnaldo Ciarrocchi, Osvaldo Licini: tutti hanno scavato i propri segni come solchi nel terreno e così anche Pericoli che in un’intervista recente non ha esitato a paragonarsi a un agricoltore, in altre parole a chi letteralmente pensa con le mani.

 

Una sua mostra precedente a Senigallia, patria del fotografo Mario Giacomelli, si intitolava “Graffiature” – il graffito del resto è la forma d’arte più arcaica. Non è un caso quindi che la mostra in corso a Milano sia stata promossa e sostenuta dall’associazione Design Terrae fondata dall’imprenditore e mecenate Franco Moschini – già presidente di Poltrona Frau –, molto legato al capoluogo lombardo per ragioni professionali: sia il museo aziendale Frau sia il Politeama a Tolentino (un centro polivalente ristrutturato da poco) sono stati progettati da Michele De Lucchi, mentre l’allestimento della mostra di Pericoli è di Pierluigi Cerri, già autore di un’ironica sedia “Donald” che, richiusa, ricorda il profilo un papero.

 

Insomma Design Terrae oggi si batte per ridare ai laboriosi territori manifatturieri del maceratese colpiti dal terremoto e dal declino postindustriale uno slancio verso nuovi orizzonti creativi e produttivi, prendendo per questo l’opera di Pericoli come un timone e Milano come palcoscenico. Roberto Calasso, che con le Marche ha avuto poco a che fare, nel breve testo che apre il catalogo scrive che il segno di Pericoli gli ha dato una “impressione rara, insieme psicologica e morfologica. Me ne accorsi subito con i ritratti. E poi non meno in certi paesaggi di cui sappiamo che non li incontreremo mai e siamo grati perché esistono. Sono paesaggi che finiscono per accompagnarci, come un mondo parallelo. Non vogliono imporsi, ma insinuarsi nella memoria. Anche per questo sono così costanti, fedeli a se stessi. Anche per questo mi sento così fedele a loro”.

 

Si tratta di uno degli ultimi scritti dell’editore milanese scomparso quest’estate, così come il risvolto dell’ultimo libro di Pericoli, Arte a parte, dedicato al rapporto fra disegno e parola. Molti dei suoi celebri ritratti sono stati eseguiti come paesaggi, “parti senza un tutto”: vedi le rughe sulla fronte di Samuel Beckett che sembrano solcate da un minuscolo aratro, o Robert Louis Stevenson ritratto mentre viceversa sta leopardianamente “sedendo e mirando” un panorama domestico. Tout se tient nell’opera di Tullio Pericoli: “Quando arrivai a Milano dalle Marche, una delle prime cose che mi dissero di visitare fu il dipinto di Steinberg. Il portone di via Bigli era sempre spalancato e tutti coloro che passavano potevano entrare nell’androne: l’opera di Steinberg, benché commissionata da un privato, era per tutti. Ogni volta che mi trovavo in quella zona non potevo trattenermi dal farci una visita”. Ora che quell’opera – un graffito – è andata perduta in una ristrutturazione, rivive oggi nello stile paesaggistico dell’artista marchigiano, giunto al grado più elevato di ricchezza d’implicazioni e di consapevole eleganza senza farlo troppo notare.