Terrazzo
L'architettura da metaverso delle banconote europee
Ponti che non esistono, porte ideali, cattedrali inventate. L'antiestetico euro
E’ stato Jay-Z ad aver reso l’euro big negli Stati Uniti. Nel video della canzone Blue magic a un certo punto, tra Bentley decapottabili e richiami agli anni 80, spunta una mazzetta di banconote da 500 euro. Poi una valigetta piena. Era l’autunno 2007, l’euro non era ancora stato preso sul serio anche se da poco aveva superato il valore del dollaro (o meglio, il dollaro era sceso, andando allo stesso valore di quello canadese). Il video mise in allarme l’America e segnò la fine della lunga egemonia dei verdoni di disneyana memoria. “Jay-Z disses the dollar” scrivevano i giornali. A vent’anni di distanza, la moneta europea non ha ancora guadagnato il rispetto estetico del suo corrispettivo d’oltreoceano. Paragonate spesso a quelle del Monopoly, le banconote usate ogni giorno da quasi 350 milioni di persone, restano insipide, nonostante i restyling recenti.
Sembrano rispecchiare l’immagine stereotipata – e populisticamente falsata – che abbiamo di Strasburgo, di Francoforte e di Bruxelles: palazzi pieni di burocrati, alti ideali irrealizzabili, istituzioni impotenti, freddi diktat nordeuropei che vietano i formaggi sardi coi vermi. Il motivo è semplice: l’euro cartaceo nasce per non scontentare nessuno. Se volessimo attivare la narrativa contemporanea, si potrebbe dire che nel processo di design delle banconote sia stata applicata una forma preventiva di politically correctness, di pavidità precauzionale per evitare piccole crepe nella solida Unione. Nel momento in cui i dodici paesi hanno dovuto abbandonare “il vecchio conio”, nel 2002, l’ultima cosa che si voleva fare era distruggere i delicatissimi equilibri degli spiriti nazionali, non dare occasioni ai movimenti No euro di sfruttare le immagini contro chi da decenni lottava per la moneta unica.
Nel 1994 l’Istituto monetario europeo, che sarebbe diventato la Bce nel ’98, creò una squadra di quindici esperti, quasi tutti nominati dalle varie banche nazionali, per scegliere cosa mettere sulle future banconote. Solo due avevano una laurea in Architettura, nota Sebastiano Fabbrini, dello Iuav di Venezia, che ha studiato a fondo il caso e che scrive nella sua ricerca Architecting the Euro: “Mentre l’istinto iniziale fu di usare il vasto patrimonio storico dell’Europa, si capì che il passato era un campo minato, che era la storia di un conflitto quasi del tutto macchiata dalle dinamiche dello Stato. Come può un’entità che nasce per mettere fine a quella storia, manipolarla ed estrarre un’immagine di unità?”.
Inizialmente vengono infatti proposti landmark come la Tour Eiffel, Stonehenge, il Partenone, il Panteon, il palazzo di Westminster… Ma sono troppo nazionalisti, troppo riconoscibili, troppo turistici, e pregni di eventi passati –“Nemmeno un edificio del Lussemburgo? E se poi ci fanno guerra?”. Nel report ufficiale del ’95 il team dell’Istituto propone di scegliere stili architettonici europei, ma di strutture che non esistono, ideali, iperuranici. Si legge nel report: l’obiettivo è “trasmettere, senza specifici riferimenti a edifici esistenti, un chiaro messaggio sulla ricchezza e sull’unità architettonica dell’Europa”. Classico, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, art nouveau e contemporaneo. E cosa c’è di più pacifico di una porta aperta? Cosa c’è di più simbolico di un ponte che unisce?
Questa era la proposta di Robert Kalina, che aveva già disegnato le banconote austriache, e che propose “elementi architettonici”. Il suo lavoro venne scelto perché non si riconoscevano i paesi, ma appariva il più europeo possibile. Astratto, ideale. Ma, a quanto pare, non abbastanza. Quando le banconote vennero rese pubbliche un giornalista inglese di Bridge Design and Engineering andò in televisione a evidenziare i dettagli che erano stati “rubati” da vari ponti esistenti, da Rialto al Pont de Normandie. Non ancora abbastanza immateriale e teorico, quindi, e Kalina fu obbligato a un restyling per de-nazionalizzare ancora di più i suoi elementi architettonici, arrivando alle banconote che usiamo oggi.
La faccia comune delle monete fu disegnata invece dall’ingegnere belga Luc Luycx; le due L incise sono le sue. Qui i poteri forti lasciarono libertà nazionale di onorare i propri gioielli di famiglia sull’altro lato della medaglia, di flexare con i propri vanti campanilistici. E quindi giù di Dante, di Cervantes, di Mozart, di sovrani e papi, ecco navi, camosci, castelli, chiese, araldica, croci, civette ateniesi e Marianne. Qui si vede la reale natura europea, tutti i simboli più amati che si mescolano e tintinnano insieme in un borsello, nella tasca di un cappotto, in un porcellino di ceramica. Per non parlare poi degli anniversari, che han dato vita ai 2 euro celebrativi, collezionabili come fossero figurine Panini (quest’anno arrivano tra gli altri: Falcone&Borsellino, Canova, 170 anni della Polizia di Stato e 35 anni di Erasmus).
Se il dollaro cartaceo – bellissimo nei secoli – ci insegna qualcosa è che la differenza la fanno le persone. Certo, la forza del verdone è veicolata da anni di soft e hard power, oltre che dalla simmetria delle figure, dalla lunga durata della grafica, dai simboli massonici, dalla coerenza cromatica e di dimensioni (tutti uguali, 156 millimetri per 66, e, fino al 2004, tutti dello stesso identico colore, modificati poi leggermente per combattere i falsari hi-tech).
Il fallimento estetico dell’euro cartaceo dimostra che abbiamo bisogno di uomini e donne riconoscibili, di volti che incarnano idee. Senza santificare nessuno, ma creare un pochino di mitologia per rafforzare le radici. Perché non mettere quindi sulla cartamoneta i volti dei padri costituenti della Ue, da Altiero Spinelli a Ernesto Rossi, da Walter Hallstein a Konrad Adenauer, da Joseph Bech a Robert Schumann? Ecco, si sentono già arrivare critiche da ogni dove, geografiche, di genere. Gente che andrebbe subito a cercare vecchi Tweet omofobi di Jean Monnet. E così ci dobbiamo tenere ponti che non esistono.