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Un posto che conosci già. Trent'anni senza Luigi Ghirri
L’invenzione del paesaggio contemporaneo, la pianura e il successo postumo su Instagram
Le fotografie di Luigi Ghirri hanno dato forma a quel luogo che era mio, anche tuo, e che ora potevamo guardare con piacere” scrive Marco Belpoliti nel suo Pianura, libro-itinerario padano dove il fotografo reggiano compare e torna di continuo ad affacciarsi fra le pagine e la nebbia. O dovremmo dire compare e scompare, perché è questa una delle costanti ghirriane: essere lì in quelle fotografie che guardiamo – che sono sempre fotografie di carta, il libro c’è sempre – ed essere altrove. Fuori dall’inquadratura, dietro l’obiettivo, a lato dell’osservatore. Tre posti diversi, sempre tenuti insieme dal suo sguardo.
Gianni Celati, amico e compagno di lavori e scorribande, scomparso appena un mese fa, raccontava che Luigi la sera accendeva tutte le luci della sua casa a Roncocesi, poi usciva a guardarle da fuori.
Luigi Ghirri, nato nel ’43 a Scandiano, è uscito da questo mondo ieri, trent’anni fa, in quella Roncocesi dal nome strano e dall’immagine rarefatta di canali e di nebbia così densa e pannosa da sembrare fatta di acqua e anice (direbbe un certo avvocato di Asti), e erba assiderata sugli argini. Ma chi è Ghirri oggi? E come mai ha – ancora? ora – così tanto da raccontare?
La sua pagina ufficiale su Instagram conta quasi 80 mila followers, un seguito di voraci e giovani utenti che condividono stories e post, si taggano nei commenti, mettono cuori e fiammelle. A qualcuno pare stonato: “Ecco trasformato uno dei più grandi fotografi del Novecento in un profilo social che augura anni di luce ai suoi adepti” (semi-cito). Eppure, potrebbe essere questo il modo meno infernale di attraversare l’inferno, diciamo andando dietro al monito di Marco Polo a Kublai Khan ne Le città invisibili: indossare la leggerezza da cui siamo circondati.
E pensiamo subito alla leggerezza ostinata del Barone rampante, ai suoi alberi inquadrati dall’obiettivo di Ghirri sulla copertina dell’Oscar Mondadori del nostro antenato calviniano. Una porzione di visuale dal basso delle chiome fronzute su cui arrampica, per l’appunto, Cosimo Piovasco di Rondò.
Ogni fotografia di Ghirri ci ricorda che non è importante solo ciò che si sceglie di includere, ma anche quello che si esclude dal ritratto. E’ una parzialità bella. Un passaggio dialettico fra il dentro e il fuori, una sintesi che traccia la geografia intima del nostro viaggiare con lo sguardo. E il valore di Ghirri oggi sta tutto qui.
Per noi, reduci da due anni trascorsi chiusi in casa, con le vite al minimo, nelle nostre stanze virali (leggi: il male del secolo o la baldoria di TikTok) e in un panorama di arti visive che sembra aver già raccontato tutto, lui racconta qualcosa di noi che guardiamo. Racconta cioè il nostro desiderio essenziale di leggerci in un’immagine. Perché Luigi esce di casa. Perché ci riabitua a guardarci intorno. Perché il suo taglio include anche ciò che sta fuori. Perché è intimo senza essere chiuso. In definitiva: perché è la nostra scoperta del mondo, anche di quello piccolo di guareschiana memoria, delle geografie minime che stiamo ridisegnando senza (ancora) prendere aerei, senza andare a cercarci lontano.
Luigi Ghirri non è stato. Luigi Ghirri non è un tempo, è un luogo. E’ uno che sa vedere bene le cose e che a un certo punto degli anni Settanta ci ha preso da parte e ci ha detto: “Vieni, ti faccio vedere dei posti”. “Che posti, scusa?”. “Dei posti che conosci già”. “E allora che me li fai vedere a fare?”. “Te li faccio vedere – ci ha detto Ghirri – perché così capisci che sono tuoi”. E così ha inventato il paesaggio contemporaneo. Ci ha presi come si prende l’omino giallo di Google Street view e ci ha trascinati sull’atlante del nostro immaginario.
Non è un caso se di quell’omino parla lui stesso, in uno scritto apparso su Lotus International nel 1987, dal titolo emblematico L’obiettivo nella visione: “Fin da bambino, le fotografie che mi piacevano maggiormente erano quelle di paesaggio. [...] Mi affascinavano particolarmente queste fotografie, dove immancabile, immobile, appariva un piccolo uomo sovrastato da cascate, monti, rocce, alberi altissimi e palme grandiose, o sul ciglio di un burrone”.
Non siamo più i viandanti romantici alle prese con la visione, con l’estetica globale delle rovine romane. Siamo i viaggiatori del petit tour, gli esploratori dei confini e delle soglie, ci troviamo a contemplare un manifesto su un muro scrostato, e siamo dentro quello stesso manifesto.
C’è questa donna. Sta seduta su una panchina, nel giardino delle Tuileries, a Parigi. E’ il 1972. Il suo viso, incorniciato da capelli spettinati, sparisce in una nuvola di fumo. Nella mano appoggiata sulla spalliera si rilassa, fra una boccata e l’altra, un’insonnolita sigaretta. Non si capisce dove e cosa guardi. Ma non ha importanza. Sta guardando qualcosa di familiare, per lei e per noi. E Ghirri ci fa vedere l’istante dilatato di uno sguardo possibile, che diventa piacere e identificazione. Siamo usciti, abbiamo fatto il giro e siamo tornati diversi. Abbiamo guardato fuori e abbiamo incontrato un paesaggio, anche nostro.