Mariano Fortuny, autoritratto (per gentile concessione Museo Fortuny, Venezia) 

Spagnolo di velluto

Giulio Silvano

Designer, pittore, imprenditore. Mariano Fortuny fu un precursore in molti campi. A Venezia riapre il suo palazzo, sempre più museo

I poster sui muri di Venezia invecchiano molto più rapidamente dei poster sui muri delle altre città, sarà l’umidità, o la patina decadente che in questa laguna avvolge tutto quanto. Mostre dell’M9, di Palazzo Grassi e di Ocean Space, manifesti femministi rimasti dall’8 marzo, pubblicità del pane, del caffè, tutti vicini, già scrostati, in pochi giorni creeranno degli involontari Mimmo Rotella sovrapponendosi tra loro. Tra i vari manifesti si nota più degli altri quello con il volto di un uomo. Ha il turbante che gli fascia la testa, la barba da avventuriero e un mezzo sorriso coscienzioso, uno sguardo divertito. Il vestiario di un’altra epoca e i toni seppia della fotografia, aggiunti alle pieghe della carta, accelerano ancora di più l’atmosfera di un tempo perduto.

   

Il tempo dei salotti parigini, vissuti, e quelli veneziani, creati, dall’uomo nella foto, Mariano Fortuny. Famiglia di pittori spagnoli, da entrambe le parti, e direttori del Prado, arrivò a Venezia nel 1889, dopo aver respirato i fumi del Secondo impero e perso il padre, che dipingeva a Roma. Venezia alla fine del secolo lacrimava ancora per la fine della grandiosa repubblica e attirava i dandy, gli storici dell’arte, i creativi. In città Fortuny avrà a che fare con figure come Isaac Albéniz, Paul Morand, Hugo von Hofmannsthal, d’Annunzio, Eleonora Duse, Ugo Ojetti, Marcel Proust (sembra una di quelle liste che si leggono nelle pagine Wikipedia dei caffè storici, vanto dei proprietari). Dopo un po’ di tempo passato sul Canal Grande, nel palazzo Martinengo, Mariano Fortuny prese possesso, comprando una stanza dopo l’altra, negli anni, del Palazzo Pesaro che nell’ultimo secolo era stato diviso in appartamenti. Lo ristrutturò, creando un gigantesco portego – al piano nobile – di quasi quarantacinque metri dove passeranno artisti, principi, intellettuali. 

    
La sala oggi, per volere familiare, ha ancora le vibe dell’epoca: vetrinette piene di uova di struzzo e copie mignon dei maestri veneziani, vetri di Murano, oversized busti dei dogi, mobili rinascimentali intarsiati, cassepanche à la fiorentina, e poi ritratti a non finire, di contesse, della moglie di Mariano, di figure di schiena maschili e femminili, Rückenfigur da boudoir, paesaggi marocchini e algerini fatti dal padre, nature morte con cineserie, fotografie d’epoca, vasi pieni di fiori secchi e specchi ossidati. E poi cuscini e ancora cuscini, su day-bed e divanetti e tappeti e sommier, e poi drappi, tende, arazzi: stoffe ovunque. Perché il palazzo non era solo casa, salotto e atelier di pittura. Dal 1907 diventa una vera e propria fabbrica di tessuti, per vestiti e poi home decor. La moglie Henriette Negrin si occupa di stampe e pigmenti, e Mariano disegna e crea. I pattern e il design hanno influenze bizantine, greche, arabeggianti, orientaleggianti, influssi di pittori veneziani e di decori architettonici mediterranei, uccelli e piante. Si respirano atmosfere da quadro di Delacroix. Si producono scialli di seta, i Knossos, che riprendono motivi minoici, e poi vestiti di scena per spettacoli pubblici e privati.

 

Nel 1909 Mariano Fortuny, che si diverte con l’ingegneria oltre che con l’illuminotecnica, inventa un macchinario per plissettare la seta, tratto caratteristico di molti suoi abiti – influenze sulla moda che sentiamo ancora oggi nei pantaloni di Issey Miyake da ereditiera artsy, per esempio. Insieme alla moglie disegna poi il Delphos, abito dal look ellenico che diventa il prodotto bestseller del brand. Tutte le grandi ballerine e attrici e nobildonne vogliono fasciarsi nelle stoffe di Palazzo Pesaro, da Sarah Bernhardt alla Duse, da Isadora Duncan a Gabrielle Réjane, dalla marchesa Casati alla principessa di Germania.

 

Vengono aperte due boutique, una a Parigi, dietro gli Champs-Élysées, uno a Londra, in Old Bond Street. Il narratore della “Recherche” ha uno dei suoi momenti di malinconia riconoscendo l’origine di un abito di Fortuny indossato da Albertine a Versailles: “Ora quel geniale figlio di Venezia l’aveva copiato proprio da quel quadro di Carpaccio, l’aveva staccato dalle spalle del giovane per gettarlo su quelle di tante parigine”, scrive Proust. Anche la duchessa di Guermantes indossa un abito Fortuny, e di nuovo in un’altra scena, cercando di portarsi a letto Albertine, il narratore le chiede di togliersi da sola la vestaglia, con immagini di uccelli, “per non sgualcirne la bella stoffa”.

 
Impossibile oggi sgualcire la bella stoffa Fortuny in mostra nel palazzo, riaperto dopo i danni dell’Aqua granda e la pausa Covid e il brusco cambio di direzione, perché nel restyling della casa-museo, appena inaugurata, la parte museo ha vinto sulla parte casa. Dietro al salone, ci sono una serie di stanzette tematiche con muri intonacati color mattone, un po’ museé Carnavalet. La prima ad esempio ospita gli abiti della maison addosso a manichini spettrali senza volto, che fa subito mostra al Met per Dior, sotto i lampadari sospesi bellissimi di Fortuny. Tutto un po’ didascalico, perdendo quell’attrazione delabré che resta solo nel giardino d’inverno, dove però, le piante sistemate lì, e gli alberelli di limone, sono in vasi di plastica (straight out of vivaio). Queste salette – quella wagneriana, quella delle armi, etc, etc, fino all’atelier pieno di splendide tele di nudo e teschi di montone – dove il visitatore è tenuto lontano da un cordone, sembrano delle wunderkammer per instagrammer. E infatti una scolaresca universitaria non smette di fare foto in verticale, aiutata dalla bella luce che arriva dalle finestre a fondo di bottiglia. Tutto un po’ troppo teatrale se si aggiunge che alcune opere e oggetti sono stati portati lì dai musei come tentativo per aumentare il feel autentico dei primi del ’900. Ma l’effetto è quello di scenografie da natura morta o da quadro metafisico. Dopotutto l’allestimento, pagato in gran parte dalla Pam, è di uno scenografo, Pier Luigi Pizzi, novantenne, veneratissimo in città. Uscendo, nel piano terra, dove si vedono alcune delle più belle mostre in periodo Biennale, c’è un po’ l’effetto galleria con dei Mahoney monocromi e dei Phil Sims. “Qui, quando ero ragazza”, dice una signora alla nipote, fermandosi nel cortile, “c’era un deposito, ci tenevamo la barca”. 
  

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