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tecnica e fantasia

Aldo Rossi a colori. La mostra sul designer al Museo del Novecento di Milano

Giulio Silvano

Un bel trip nella mente del primo italiano a vincere il premio Pritzker. Un mondo, quello rossesco, dove gli oggetti in casa possono esser scambiati per gli edifici che vediamo fuori dalla finestra. La sua Conica è forse la caffettiera più bella del mondo

Gran folla di preti che fanno colazione nei bar intorno al Duomo, col collare slacciato e gli occhiali, prima di una doppia beatificazione, e poi gente in coda a Palazzo Reale, nell’ultimo weekend milanese di aprile, a vedere le donne di Tiziano e quelle Scianna. Pochissimi a varcare l’ingresso del Museo del ’900. “Ma il ‘Quarto stato’?”, chiede un gruppetto con gli zainetti. “Non c’è, ci spiace, è via per un prestito”. “Allora ce ne andiamo… scusi ma Luini sta da ’ste parti?”.  Per la mostra di Aldo Rossi bisogna passare dal gift shop. “Strano che non l’abbiano fatta in Triennale”, dice uno. “Mah, meglio. Sono andata a vedere quella di coso, là, ed era così stucchevole”. Invece la mostra “Aldo Rossi, Design 1960-1997”, a cura di Chiara Spangaro, è un bel trip nella mente dell’architetto-designer milanese, primo italiano a vincere il Pritzker.

Tra le nove sale, senza inutili celebrazioni, capiamo soprattutto le priorità di Aldo Rossi. I colori, innanzitutto, molto più della prospettiva. Anche negli schizzi incorniciati: disegni che non capisci quasi mai se sono preparatori per qualche progetto o semplici visioni di un sogno, di un’allucinazione. A volte tutto un po’ Lucy in the Sky with Diamonds + Portaluppi. “Picture yourself in a boat on a river with tangerine trees and marmalade skies”… c’è qualcosa di psichedelico nella metafisica postmoderna delle forme circensi e da spiaggia e nel suo Teatro del Mondo. E nei colori scelti: i rosa e gli azzurrini e poi il rosso penetrante sul poliuretano della poltrona Parigi, del 1991, che sembra sempre muoversi, sempre pronta a balzare via. Un good trip. Un cartone animato. E poi coni e triangoli e sfere e cupole. E nonostante la vibe psichedelica, i prodotti tutti senza sbavature, tutto preciso e squadrato e pulito, senza quelle macchie stile Memphis. “Fantasia e tecnica sono un binomio inseparabile”, diceva Rossi.

E poi la scala, le dimensioni, che sembrano non esistere più. Che non sembrano per nulla importanti per Rossi. Una caffettiera – come La Conica, forse la più bella caffettiera del mondo – che potrebbe esser grossa come un grattacielo. Un mondo, quello rossesco, dove gli oggetti in casa possono esser scambiati per gli edifici che vediamo fuori dalla finestra. Design applicato all’architettura, architettura applicata al design, (e poi in fondo qual è la differenza?). Brocche che sembrano fari. Teiere in un teatrino. E lo scatolone del cimitero di Modena che diventa vetrina per il display di zuccheriere e tazze e orologi e di splendide penne che se fossero cento volte più grandi sembrerebbe uno skyline cromato. Tessili fatti in Sardegna bellissimi. Universo Alessi e piatti super chic per Rosenthal. Sedie pieghevoli come se la Bauhaus fosse stata in Brianza.

Il catalogo ragionato, fatto da Silvana Editoriale in occasione della mostra, con tutte le decine di oggetti e mobili disegnati, come una fanta wish-list. L’ultima sala che riprende il mood ghirresco del servizio in casa di Rossi e viene voglia di aprire tutti quelli sportellini e cassettini degli armadi o passare una mano sul tavolone, ma hanno già sgridato un bambino prima che voleva sedersi sulla sedia Milano, meglio evitare.