Terrazzo
Il Munari ritrovato. La mostra a Milano, tempio dell'artista
L’arte di disegnare una copertina: libri, riviste, vinili in esposizione alla Kasa di largo de Benedetti. Tra Mussolini e Primo Levi, alcuni appunti di bibliofollia
Ossesso come sono da tutto ciò su cui Bruno Munari (nato nel 1907, morto nel 1998) ha fatto valere per poco meno di un secolo la sua inesausta creatività, m’è venuto un tuffo al cuore appena ho saputo della mostra di suoi libri o di cui Munari aveva disegnato la copertina. Una mostra che s’è appena aperta alla Kasa sita a largo Aldo de Benedetti 4, l’appartamento milanese che Andrea Kerbaker ha eletto a tempio della sua passione per i libri di qualità. Vuoi vedere, mi sono detto, che quegli stramaledetti Kerbaker e Mauro Chiabrando (miei cari amici ma anche miei rivali in tema di bibliofollia) metteranno in mostra qualcosa di munariano che io non ho?
Lo sto dicendo con l’animo di chi pone Munari in cima a tutte le altre sue passioni collezionistiche da quanto lui per tutta la vita ha avuto in punta di dita le valenze del moderno. Fossero i suoi libri d’artista, le riviste che reinventava tipograficamente, le collane editoriali marchiate dalla sua arte grafica, i poster pubblicitari di cui ha irrorato la metropolitana di Milano, o magari gli oggetti di design apprestati per la Danese. La volta, una trentina d’anni fa, che ero andato a trovare Munari nello studio al pianterreno del palazzo milanese in cui abitava al quinto piano, per tutta la durata del nostro colloquio io rimasi seduto ad ascoltarlo mentre lui non smetteva un attimo di andar girovagando per il suo studio, di additare le sue opere sventagliate sui muri tutt’attorno, di spiegare, di precisare.
Purtroppo di questa mostra milanese – che al momento non ho modo di andare a visitare – non esiste un catalogo vero e proprio. Kerbaker mi ha mandato schede, elenchi e informazioni. Tra libri e riviste e una decina di vinili di cui Munari ha disegnato la copertina (altro tra i linguaggi che connotano l’originalità del Novecento), i pezzi in mostra sono la bellezza di 400. C’è il famoso (ma non rarissimo) primo libro di cui il ventiduenne Munari aveva disegnato la copertina nel 1929, l’Aquilotto implume di tal Giuseppe Romeo Toscano, un libro che ho ma che non ho mai letto. Ovviamente ci sono tutti e 77 i libri che tra il 1960 e il 1966 aveva pubblicato, uno al mese, il Club degli Editori e di cui Munari aveva disegnato copertine l’una più suggestiva dell’altra. Ci sono i libri fatti per la collana Uno al mese di Valentino Bompiani, alle cui copertine (lo ha scritto Umberto Eco) ci si mettevano in quattro a ragionarne e per non meno di due ore a volta.
Ci sono tutti i volumi einaudiani in cui i disegni e la grafica di Munari fanno combutta con gli splendidi racconti “per ragazzi” di Gianni Rodari. C’è “un corridoio” della Kasa dedicato ai libri d’artista di Munari pubblicati dal tipografo milanese Giorgio Lucini, e ancora mi brucia la volta che non riuscii a convincerlo di vendermi il menabò originale di uno di quegli strepitosi volumi da lui editi in piccole tirature. C’è un’altra collana leggendaria tra quelle apprestate graficamente da Munari, Il Quadrato di Vanni Scheiwiller, pochi quanto pregevoli librini che hai paura a maneggiarli da quanto ti appaiono fragili. Ovviamente c’è una campionatura di riviste, tanto degli anni Trenta che degli anni Cinquanta, su cui Munari aveva fatto qualcuna delle sue plateali sortite grafiche e intellettuali.
Sì, c’è un maledetto libro del 1933 che io non ho e che sta in mostra a Milano e di cui non sapevo nulla, Storia di un balilla che volle vedere il Duce di tal Narcisio Quintavalle, di cui mi immagino che Munari lo avesse arredato con suoi disegni e con la sua grafica. A proposito di questo libro ma anche di alcuni numeri della mussoliniana “Rivista illustrata del Popolo d’Italia” su cui il Munari degli anni Trenta ha lasciato le impronte digitali, Kerbaker mette le mani avanti in una delle schede che mi ha inviato. Si dice sorpreso del fatto che nessuno ne parli mai dei prodotti editoriali e intellettuali di un Munari che ci conviveva perfettamente con il fascismo italiano degli anni Trenta.
Figuratevi il contrario, un Munari che nei suoi vent’anni si autoesilia da tutto ciò che gli stava attorno nella realtà italiana del tempo, lui che aveva debuttato nella squadra futurista e dunque di gente che il fascismo lo esaltava e se ne avvaleva quando si trattava di trovare uno stile e la sua velocità. Non vorrei sbagliarmi ma nella mostra milanese non figura l’esemplare datato 1937 dell’Almanacco antiletterario Bompiani, quello dove Munari trionfa con una dozzina di pagine fustellate dov’è un racconto fotografico esaltato dalla fustella (ossia dal buco in alto a destra di ciascuna pagina) da cui emerge il volto del Duce mentre è celebrato nel pieno della sua foga oratoria.
Per essere un’apologia di quello che il mio fraterno amico Aldo Cazzullo definisce “il capobanda”, ne è un’apologia smaccata. Munari era stato per un tempo attiguo o comunque consenziente del fascismo al potere? Ma certo che sì. Questo cambia di un ette il giudizio sul suo itinerario creativo? Ma certo che no.
Semmai è strano che nella mostra milanese non mi pare ci sia un libro la cui copertina fa da record delle copertine più sbagliate del Novecento editoriale. Sto parlando di un libro celeberrimo della letteratura italiana del secolo scorso, Se questo è un uomo di Primo Levi. Era successo che nell’immediato dopoguerra Natalia Ginzburg avesse dato parere sfavorevole sul testo che Levi aveva inviato alla Einaudi, e dunque la prima edizione (1947) di uno dei libri più famosi del Novecento porta la sigla di Francesco De Silva, la sigla editoriale torinese dietro cui stava il genio di Franco Antonicelli.
Pubblicato in poco più di un migliaio di copie, il libro ne vende poche centinaia. Finché le copie residue vengono vendute a una casa editrice fiorentina, La Nuova Italia. Solo che l’alluvione di Firenze del novembre 1966 quelle copie le distrugge quasi tutte. Nel frattempo alla casa editrice Einaudi avevano avuto come un ripensamento e nel 1958 avevano pubblicato una seconda edizione del Se questo è un uomo, e questo in una loro collana di saggistica dove non c’entrava niente. A peggiorare le cose avevano affidato il disegno di copertina a un Bruno Munari reduce dall’esperienza dell’Arte Concreta e che di quella copertina aveva fatto qualcosa di antifigurativo che non c’entrava proprio nulla con il contenuto del romanzo di Levi.
Questa nuova edizione di copie ne vende a sua volta poche centinaia. C’è che nel frattempo e in tutt’altra collana (i Coralli) la Einaudi ha pubblicato il secondo e più bel libro di Levi, La tregua. A questo punto, nel 1963, in quella stessa collana pubblicano finalmente Se questo è un uomo. Di cui a tutt’oggi sono state vendute qualcosa di vicino a due milioni di copie. Inutile dire che quell’edizione in cui per una volta Munari aveva fallito io la conservo religiosamente. Seppure sbagliata, è una bellissima copertina.