Foto di Austin Ramsey, via Unsplash 

Terrazzo

Il ritorno all'artigianato del design post-craft

Enrico Ratto

La nuova architettura dei pezzi unici come "quelli di una volta" è una realtà, ma il sistema del mercato continua a proporre prodotti che rispondono in modo superficiale a questo tipo di etica. Un'indagine

Ecco la storia di come si manda in confusione persino una materia rigorosa come il design. Nel 2008 il designer olandese Maarten Baas prende in prestito il progetto di una sedia in plastica pensata per la produzione seriale con criteri occidentali – marchio, macchine, qualità – va a Shanghai e la fa riprodurre in legno dagli artigiani cinesi, una copia identica, lavoro altamente specializzato, ricorso ad antiche tecniche del fatto a mano, nessun processo industriale. “Questa è una sedia Made in China” annuncia il designer, poi la riproduce in soli cinquanta esemplari, la vende ai collezionisti, e si apre il dibattito.
Ci voleva il craft, l’artigianato, per rompere la tradizione. Anzi, ci voleva il post-craft: “post” significa che tutti riescono a produrre tutto.

 

Per lo meno ci provano, grazie ai tre fattori che ai tempi del semplice uomo-artigiano non c’erano: tecnologia accessibile, attenzione maniacale alla sostenibilità, disintermediazione del mercato. Oggetti facili da produrre, etici ed ecologici, facili da vendere. Ma davvero è tutto così facile? “Non chiederlo a me, io sono ‘contro l’oggetto’”, risponde Emanuele Quinz, docente di Storia del design all’Università Paris 8, citando il titolo del suo ultimo libro (Quodlibet) con cui ha vinto il Compasso d’Oro 2022. “Certo è che da una decina d’anni viviamo all’incrocio di due fenomeni. Da una parte, una presa di coscienza della crisi del modello industriale, della produzione seriale, dell’ideologia dello standard. Standardizzando le forme, si standardizzano anche i comportamenti, questo si dice da decenni, dai radicali al design critico degli anni 2000. C’è quindi un ritorno all’artigianato, al fatto a mano, alla dimensione locale, al chilometro zero, al making”. È possibile che il sistema industriale, con tutte le sue indagini, non se ne sia accorto? “Infatti, il secondo aspetto è che in alcuni casi il sistema del mercato si è appropriato di queste pulsioni. Così propone dei prodotti che rispondono in modo superficiale a questo tipo di etica, oggetti che simulano la dimensione del craft”.

 

E così l’industriale democratico e pensato per tutti sarebbe meno etico di un “fatto a mano” dal tono élitario. “È questa la parte interessante” continua Quinz, “se ci pensi, nel progetto della modernità l’idea dello standard era legato all’idea di produrre per tutti, di rendere gli oggetti accessibili, mentre oggi ci si rende conto che questo modello non è più applicabile. L’utopia del design durante il boom economico era quello di iniziare a pensare globale, oggi abbiamo capito che questo modello non è perseguibile e che bisogna iniziare a lavorare con le tradizioni, le culture, i materiali, le risorse, le persone locali. Così cambiano completamente la catena di produzione e di utilizzo degli oggetti”. Le culture locali giocano un ruolo importante, quando la curatrice Paola Antonelli in piena pandemia ha lanciato il progetto Design Emergency, ha raccolto casi di studio da aree del mondo impensabili. Secondo Emanuele Quinz, “questi non sono più oggetti, è politica, sono interventi di economia, di mediazione culturale”.

 

Nel 2015, a Londra, Catharine Rossi insieme ad Alex Coles, entrambi docenti di Storia del design con forte orientamento per la ricerca, organizzano un summit sull’argomento e oggi tutti gli interventi di quella giornata sono raccolti nel libro Post-Craft (Stenberg Press). Era un periodo, il 2015, in cui tutta l’attenzione era rivolta alle nuove stampanti 3D dei makers, agli interventi dei designer nei luoghi dell’arte, agli artisti che si mettevano di traverso, ai designer industriali che distribuivano certificati di autorialità e “made in…”, a qualsiasi idea uscisse dai loro studi. Era scoppiato il post-craft. Chiediamo a Catharine Rossi chi sia stato – e perché – ad aggiungere quel “post” che ha mandato in crisi il sistema. “Penso che il momento chiave sia stato quando ci si è accorti che tecnologia era alla portata di tutti” risponde Rossi “questo ha permesso di immaginare che l’artigianato potesse essere fatto da tutti, su una scala più grande e con una portata più ampia. La cosa interessante non era più comprare qualcosa fatto da un autore, ma farla”.

 

Il lusso aspirazionale, lo voglio anch’io, viene messo in crisi da un lusso dell’animo, della realizzazione personale, lo voglio fare anch’io. E con i lockdown qualcuno ha iniziato a farlo davvero, le riviste e il web sono piene di casi. Ma c’è dell’ideologia in tutto questo? “Certo, c’è la convinzione che il craft sia moralmente preferibile, più etico” dice Catharine Rossi “ma è chiaro che la produzione industriale non può essere considerata immorale”. L’accademia ci ha messo il “post”, ma noi sbagliamo se pensiamo di metterci il “versus” e porre le due cose in antitesi. “Qui nel Regno Unito è un po’ diverso, ma in Italia il fatto a mano e l’industriale non sono antagonisti, sono fasi di un processo. È sempre stato così.” dice Rossi, mentre ricorda i suoi studi su Memphis, con le primissime produzioni fatte a mano, anche se in quel caso non dovevano sembrare artigianali.

 

Scendiamo sul campo ed esponiamo il caso a Piero Lissoni, architetto e designer Made in Italy, fiero del suo essere industriale, modernista che pensa in termini di prodotto. “La verità è binaria”, dice Lissoni, “da designer industriale, ragiono sempre con una visione legata a una produzione continua, con un modello costante. Ma abbiamo bisogno degli artigiani, lavoriamo costantemente con chi produce a mano. Noi la chiamiamo contaminazione, e lo abbiamo sempre fatto. Poi io prediligo il progetto industriale perché nasco come industrial designer, ma altri stanno esplorando altre possibilità”. E l’industria si preoccupa? “Certo che si preoccupa” dice Lissoni, “ma chiariamo, un conto è l’artigiano che lavora in un certo modo e porta avanti un linguaggio tradizionale. Un conto è l’artigiano che riproduce pedissequamente il tavolino o la lampada di un brand industriale, con qualche modifica perché non riesce ad avere accesso agli stessi livelli tecnologici dell’industria. Questo diventa pericoloso, è una versione artigianale di comodo. E il cliente non sempre la paga meno, anche se il designer che va direttamente sul mercato risparmia su tutta la quota della distribuzione”.

 

Cadono tutti sulla disintermediazione, e allora un designer che oggi apre uno studio suona all’industria con il progetto per una lampada e il disegno di un tavolo, oppure sceglie la piccola produzione disintermediata? “Secondo me il trend è la piccola produzione disintermediata”, risponde Lissoni: “Produco ed esco dal modello tradizionale, esco dalle marche tradizionali, esco dai negozi e dalla distribuzione tradizionale. Oltre al fatto economico, c’è un desiderio di controllo. Se controllo il processo a trecentosessanta gradi, ho l’impressione di poter fare quello che voglio”. E però rinuncia a costruire una struttura organizzata. “Ma sai, quello forse è un bene. Non ti so dire se è più consistente pensare o più consistente costruire, è difficile distinguere tra la causa e l’effetto, da un certo punto in avanti la struttura si allarga perché crescere è fondamentale per poter lavorare. Restare piccoli e autosufficienti può essere utopia. Se cominci a progettare, hai bisogno di una certa struttura, e quindi eccoci qua”.

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