Cristoforo Munari, Public domain, via Wikimedia Commons 

Terrazzo

“Une histoire de la nature morte” al Louvre. Un'occasione mancata, ma con capolavori

Giulio Silvano

La mostra a Parigi è accumulazione e wunderkammer piena di cose. L'errore è saltare il tempo dalla preistoria al 1500 e arrivare poi a Boltanski e a Nan Goldin

Angurie, zoccoli olandesi, asparagi, teste di maiale, agnelli legati, teschi, piatti, selvaggina, scacchiere, carote, meloni, pipe, libri, mandolini, rose, salsicce, limoni, coltelli, bicchieri pieni di vino, pappagalli, conchiglie, anfore, bauli, spade, drappi, cineserie, conchiglie, bottiglie di Coca-Cola, coralli, monete, candele, ciliegie, custodie, aragoste, letti, cavoli, rape, otri, formaggio, insalate, foglie, pesci. Solo alcune delle cose diventate soggetti dei quadri riuniti al Louvre per Les Choses. Une histoire de la nature morte, curata da Laurence Bertrand Dorléac. “Nel nostro mondo pieno di chiacchiere, gli artisti ci invitano a prestare attenzione a tutto ciò che è silenzioso e minuscolo”, ha detto presentando la mostra. E invece il silenzio non c’è, perché leggiamo il prima e il dopo di quelle polaroid a olio, soprattutto guardando gli splendidi giochi di luce sugli animali sviscerati e appesi per poi essere macellati e cucinati. Molta natura, morta, appunto, tra fiori recisi e pesci sfilettati. Molta ex-natura, ma anche creazioni artigianali. E molta morte, tra i teschi, come quello rumorosissimo di Gerhard Richter. 

 

L’errore è quello di saltare il tempo dalla preistoria al 1500 e arrivare poi fino a Boltanski e a Nan Goldin, perché, secondo la curatrice, la pittura che c’è in mezzo, anche quando ci sono delle cose, è sempre simbolo del sacro religioso e viene quindi esclusa. La mostra, occasione mancata – idee poco chiare – dona però l’opportunità per vedere alcuni capolavori di altri musei o collezioni, come l’Agnus dei di Zurbaràn o la Nature morte vivante di Salvator Dalì. Ma anche tanti quadri del Louvre, qui messi sotto una nuova luce che ne risalta il soggetto sopra l’autore, come l’annunciazione di Van der Weyden o il bue macellato di Rembrandt o i burleschi ritratti compositi dell’Arcimboldo. Tolta ogni tesi, alla fine, restano solo gli oggetti – i quadri – appesi. Un best of dell’accumulazione, della Wunderkammer o della tela come palcoscenico per un fascio di asparagi bianchi.

 

Nell’epoca del metaverso e della rent economy, dell’esperienza come fine ultimo, l’attenzione alle cose, alla materialità, è bollata di feticismo. Qui se ne osserva la rappresentazione, in un formato mediatico, la tela, che è essa stessa chose. C’è qualcosa di più meta di un quadro di quadri? Che siano simboli, le cose, o che ci sia solo pura rappresentazione, oltre a Perec viene in mente quella canzoncina di Jean-Jacques Goldman che fa “Sans chose, je n’existe pas”.

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