Intelligenza artificiale a colazione

Enrico Ratto

Mauro Porcini, Chief Design Officer di PepsiCo e autore del libro “The Human side of Innovation” ci aiuta a immaginare di che cosa si occuperà il designer del futuro

La mattina ci sveglieremo e penseremo di essere riposati, di aver dormito bene, pronti via. Invece no: l’anello che abbiamo indossato tutta la notte ci dirà – o forse nemmeno ce lo dirà – che non è così, quindi comunicherà all’elettrodomestico di mettere più magnesio, più ferro nella colazione, altrimenti come faremo ad affrontare la giornata piena di impegni di cui il Calendar – sempre nell’anello – conosce tutti i dettagli? Questo è uno degli scenari che Mauro Porcini, Chief Design Officer di PepsiCo e autore del libroThe Human side of Innovation” (Berrett-Koehler Publishers), appena uscito negli Stati Uniti, immagina quando gli chiediamo di che cosa si occuperà il designer del futuro. Un mestiere che, per arrivare a questi risultati tecnologici, sembra non possa prescindere dall’aspetto umano. Notiamo il tempismo: le aziende tecnologiche stanno licenziando migliaia persone e noi parliamo di lato umano dell’innovazione, che cosa ci sfugge? “Nulla, questi non sono scenari di lungo periodo” spiega Mauro Porcini al Foglio. “Tutte le multinazionali attraversano ciclicamente momenti di ristrutturazione, di riconfigurazione dei team interni, non penso che questi licenziamenti siano legati a una nuova tecnologia che possa togliere lavoro umano. Quando arriveremo a una situazione in cui la tecnologia rimpiazzerà totalmente l’umano, allora l’ultimo dei problemi sarà il posto di lavoro”.

 
Per il momento siamo ancora sul terreno del “phygital”, l’incontro tra il fisico e il digitale, il ponte tra la nostra vita fatta di oggetti e piuttosto imperfetta e l’intelligenza artificiale che si occupa di agevolarla o, con una punta di etica, tenerla in carreggiata. “Mi colpisce una cosa”, osserva Porcini; “quando gli americani mi chiedono di questo libro, si interessano a concetti come bontà, ottimismo, curiosità, sensibilità, le caratteristiche che deve esprimere un innovatore. In Italia, tutta l’attenzione è concentrata sull’aspetto umano”. E’ che ci fidiamo poco, capita che le aziende non solo facciano green washing, ma che anche questo “nuovo umanesimo” sia una facciata. Come le smascheriamo? “Sono quelle aziende che cambiano strategia ogni minuto, non hanno coerenza perché non stanno progettando qualcosa di sostenibile. I designer, anche i più puristi, oggi hanno una grandissima opportunità, che forse vent’anni fa non esisteva. Possono lavorare sulla loro idea, sull’integrità della loro visione, e possono allinearsi davvero con la cultura aziendale, a partire dal marketing, che non è più un nemico”.

 

Per questo il designer dev’essere interno all’azienda, il consulente-satellite non funziona? “Assolutamente. Tutto quello di cui stiamo parlando riguarda una sola parola: cultura. L’innovazione è cultura. Il mio lavoro in PepsiCo è immaginare la nostra vita del futuro, poi tutta la progettazione diventa coerente”. Tredici anni fa hai scelto New York, è ancora quel luogo in cui torneresti per innovare? “New York è il luogo dove persone di tutto il mondo si riuniscono per parlare di innovazione, ma l’innovazione si fa ovunque. L’anello di cui parlavamo prima è nato in Finlandia. Israele è il luogo ideale per fondare una start up. Sarebbe bello si facesse anche in Italia, ma l’Italia spesso considera il resto del mondo solo come sbocco per fare export, qualcosa che riguarda i clienti e il commerciale, mentre l’innovazione a cui penso è quella globale, che apre al mondo tutti gli ambiti dell’azienda, a partire dalla progettazione del prodotto e quindi del nostro modo di vivere domani”.